teologia e cultura
17 Aprile 2010 Share

teologia e cultura

 

Sono passati tredici anni dall’insurrezione zapatista del primo gennaio 1994. Da quel giorno il Chiapas è diventato, nell'opinione pubblica mondiale, il simbolo di un “luogo senza volto” e gli zapatisti i difensori dell’identità indigena. Sotto quel passamontagna, tra speranze e delusioni, la rivoluzione fu solo mediatica.

L’enfasi posta sul “servitore della comunità indigena”, il subcomandante Marcos, ha offuscato il momento cruciale d’apertura pluriculturale che la Diocesi di San Cristobal stava vivendo: un’evangelizzazione rispettosa dell’identità indigena. Una pastorale indigena, fatta da indigeni per indigeni, caratterizzava l’attività dei suoi “servitori ecclesiali”, i sacerdoti. Per la prima volta, “esseri irrazionali privati della fede” erano soggetti della propria storia e promotori della loro evangelizzazione integrale. Dalla propria cultura, stavano elaborando una riflessione sulla fede. Era una riflessione sulla religione precolombiana, e al tempo stesso cristiana, transecumenica e interreligiosa. Consisteva nel guardare Dio, quello ricevuto dall’Occidente, dalla propria cultura, cercando la sua presenza nella tradizione, nella mitologia e nella religiosità popolare. “Colombo non portò Dio sulle sue navi, perché Dio era già presente tra gli indigeni”. Non un Dio differente. Lo stesso Dio.

Questa riflessione sulla teologia indio-cristiana presupponeva il riconoscimento di una rivelazione nelle culture indigene, quello che il Concilio Vaticano II chiamò i “Semi del Verbo”. Iniziò così un dialogo tre le culture mai avuto prima. Per esprimere il Vangelo, l’evangelizzazione tradizionale ha imposto la cultura occidentale su quell’indigena. Negando tutto quello che considerava diverso, non ci fu ascolto reciproco. La Diocesi di San Cristobal, per la prima volta, recupera quel dialogo interrotto. Per essa, la “Parola di Dio” non era contenuta solo nella Bibbia ma anche nel cosmo, nella storia e cultura dei popoli. Considerava fonti di teologia indigena il libro del cosmo e della creazione, i libri sacri, la parola antica o i miti, le tradizioni, i monumenti e le zone archeologiche. La stessa Bibbia, oltre a rivelare la Parola di Dio, mostrava dove e come si era rivelato all’umanità e nella storia. Diventava così la misura e il criterio per riconoscerla nella realtà naturale, culturale e religiosa dei popoli originari. Le lingue indigene erano il veicolo delle culture. Queste, a loro volta, contenevano le spiegazioni ai principali problemi dell’esistenza e la relazione trascendente con Dio.

Così la Diocesi scoprì il valore teologico delle culture, come processi millenari che esprimevano il cammino religioso dei popoli. Questo processo portò la Diocesi di Samuel Ruiz allo studio delle Sacre Scritture, e traduzione dei testi liturgici, nelle principali lingue indigene della regione. La Bibbia letta e studiata in lingua chol e tzotzil, il Nuovo Testamento in  tzeltal e in tojalabal, avvicinarono gli indigeni ad una chiesa diversa, “greca con i greci”, “giudaica con i giudei”, “tzotzil con i tzotziles”, “tzeltal con i tazeltales”. “Una chiesa radicata profondamente nella vita sociale e nelle ricchezze culturali della propria nazione che, provvista di sacerdoti nativi, sia capace di soddisfare le proprie necessità per vivere e propagare la vita cristiana del Popolo di Dio, sotto la guida del proprio Vescovo” ( Ad gentes n. 19,  In III Sinodo Diocesano – Diocesis de San Cristobal de las Casas ,Gennaio 2000). Una chiesa schierata con gli ultimi, con i “condannati della terra”, i cui semi germogliavano dagli ambiti stessi della propria cultura. Una chiesa dei “poveri tra i poveri” nella quale si percepiva il senso vero della loro presenza che, al tempo stesso, rendeva vera la loro esistenza.

Le nostre chiese avrebbero molto da imparare da questo metodo e da una lettura della Bibbia non funzionale al sistema! ☺

pinobruno@yahoo.it

 

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