Piangere con le vittime
1 Novembre 2015
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Piangere con le vittime

“Perché dovrei desiderare la visione di Dio più di quanto mi sia dato già oggi? Vedo qualcosa di Dio in ognuna delle ventiquattro ore della giornata, in ogni suo singolo momento. Vedo Dio sul volto degli uomini e delle donne che incontro e nel mio stesso volto, allo specchio. Mi imbatto in lettere di Dio cadute nelle strade e ognuna di esse reca la firma del nome di Dio”. Queste parole del grande poeta americano Walt Whitman (quello di “Capitano, mio capitano”, per intenderci) ci introducono magnificamente nella riflessione sulle opere di misericordia che, prima di essere state elencate in modo asettico nell’antico catechismo di Pio X e nella teologia morale classica, sono incastonate nel magnifico affresco tracciato da Gesù nel vangelo di Matteo (25,31-46), quando descrive il giudizio finale e la divisione dell’umanità in pecore e capri. La novità del vangelo non sta nell’individuare le concrete declinazioni dell’amore del prossimo, perché queste sono conosciute anche nella tradizione ebraica, come ci ricorda un commento al vangelo, di A. Mello, che cita la tradizione rabbinica, dove vestire gli ignudi o consolare gli afflitti significa imitare Dio (“Siate perfetti come il padre vostro celeste” dice anche Gesù nello stesso vangelo). Un rabbi insegnava infatti: “Come Dio ha vestito quelli che erano nudi (Adamo ed Eva), vesti anche tu quelli che sono nudi; come Dio ha consolato gli afflitti (Isacco), consola anche tu gli afflitti; come Dio ha seppellito i morti (Mosé), tu pure seppellisci i morti”.
La novità del vangelo è che Gesù (e quindi Dio), non si identifica con chi fa le opere, ma con il destinatario di quelle opere molto concrete, che riguardano la vita umana e la sua dignità. Nel modo umano di intendere la religione, invece, (ereditato anche dalle narrazioni ideologiche ateistiche dall’illuminismo in poi) c’è prima Dio o l’idea che si ha di esso, c’è prima l’ideologia, il partito, la lotta di classe, la religione, la chiesa e poi l’uomo. È questo schema interiorizzato anche dal cristianesimo che ha permesso di inventare le guerre di religione, il reato di lesa maestà, le riconquiste dei luoghi santi, la distruzione delle culture estranee al proprio modello, fino ad arrivare all’aberrazione di coprire i reati di pedofilia per salvare il buon nome della chiesa, difendendo le categorie, ma calpestando le persone. Oggi continuiamo ad assistere al dilagare della violenza fatta in nome di una religione o della scusa di far crescere la democrazia nel mondo, tutti accorgimenti retorici che servono per coprire altri moloch sul cui altare si compiono ancora sacrifici umani: la finanza speculativa, il commercio delle armi, lo sfruttamento ambientale, e giù giù fino alla speculazione apparentemente di poco conto di chi imbroglia sui progetti edilizi, taglia le quantità di materiali, perché tutti tengono famiglia, senza poi preoccuparsi se quella strada o quella scuola o quell’ ospedale che crolla può portarsi via delle esistenze uniche e irripetibili; fino a giungere ai proclami sciocchi e terribili di chi si ostina a parlare di esuli e profughi come immigrati che ci invadono e ci rubano il lavoro, mentre nel frattempo il mare inghiotte tutta quella marea umana di disperati.
La grandiosità della riflessione di Gesù sta, però, non nel gettare in faccia a noi tutte le ingiustizie e le violenze e le mancanze che si sono accumulate nella storia per emettere poi la sentenza di condanna; parlare per parlare, una volta commessi i reati sarebbe del tutto inutile, se già la sentenza è stata pensata: significherebbe ripagare con la stessa moneta chi ha commesso il male, una vendetta contornata di parole. Il senso di questa dilazione oltre la fine della storia è fondata su una convinzione: Dio ha, nonostante tutto, ancora fiducia nell’uomo, anche nel più indurito dal male, spera sempre che ricordando il male commesso l’uomo possa sciogliersi in lacrime di pentimento, non perché ha offeso Dio, ma perché non è stato solidale con il fratello. Quel Gesù che ha raccontato la parabola del servo debitore che intenerisce il cuore del suo padrone (Mt 18) non può non pensare che il re che presiede il giudizio non debba essere così. L’esito negativo del processo non è dato dalla constatazione del male compiuto: “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, sete e non mi avete dato da bere; ero nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”, bensì nella risposta spocchiosa degli interpellati: “Quando mai non ti abbiamo fatto quello che ci dici?”. È l’indifferenza e il mancato riconoscimento del male commesso che decide l’esito del processo e non il male commesso in sé.
Il giudizio finale a cui fa riferimento Gesù non è l’apertura dei libri contabili per elencare le malefatte e applicare le sanzioni, ma l’ultimo appello a quell’immagine di Dio impressa nel cuore di ogni uomo, a quella capacità di amare che ci fa pentire del male commesso visto che ormai non si può porre rimedio agli effetti di quel male. Non è la mancanza di sbagli a salvarci, cioè a renderci veramente umani, ma la capacità di riconoscere gli sbagli e di piangere con le vittime imparando da quegli stessi errori a costruire un mondo migliore, il regno di Dio di cui ci parla il vangelo perché, come ci ha detto il poeta, ognuno, anche chi sbaglia, reca la firma del nome di Dio.☺

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