il fuoco della geenna
16 Aprile 2010 Share

il fuoco della geenna

 

Quando Gesù voleva parlare ai suoi uditori dell’inferno e del giudizio, utilizzava il nome di una località, fuori dalle mura di Gerusalemme, tristemente famosa nella storia d’Israele, in quanto alcuni re scellerati vi compivano dei sacrifici umani. Il nome, che doveva far venire i brividi a chi ascoltava, era quello della valle della Geenna che, appunto, ai tempi di Gesù era usato comunemente come metafora del giudizio finale. Quella valle suscitava immediatamente l’idea della morte, in quanto i profeti l’avevano descritta piena di cadaveri, in tempo di guerre e di saccheggi. Ai tempi di Gesù, tuttavia, lo scopo probabile a cui era destinato quel sito era quello di deposito delle immondizie, e tale uso è rimasto per molti secoli, anche in epoca islamica e crociata.

E’ significativo quindi, soprattutto se guardiamo alla nostra attualità, che il simbolo del giudizio finale negativo (in quanto la geenna è il luogo della punizione) sia l’immondezzaio! Oggi, purtroppo, il simbolo e la realtà che rappresenta sono drammaticamente fusi in un’unica visione: il fumo denso della diossina che si alza dai cassonetti incendiati di Napoli potrebbe essere considerato una metafora del giudizio sulla nostra civiltà in quanto, quello che accade oggi in quella città (con tutto il suo contorno di urbanizzazione forsennata), è la pustola purulenta che è arrivata nel nostro mondo dell’opulenza, che finora ha sempre chiuso gli occhi sul rito quotidiano di tutti i disperati della terra che campano su sterminate distese di rifiuti con i quali riescono a fare commercio, costruirsi un riparo e, ovviamente, anche a mangiare (prendendo direttamente il cibo dai rifiuti).

Il giudizio su questa generazione (per usare le parole di Gesù) si è sfacciatamente riversato, infatti, non solo su chi a Napoli ha sempre vissuto di espedienti, coltivato nei vivai della bassa manodopera camorrista, ma anche su tutti coloro (la società per bene) che con la malavita hanno fatto affari, dalla malavita hanno avuto voti, sulla piaga della delinquenza non solo hanno chiuso gli occhi ma vi hanno spalmato sopra la colla per impedirsi di riaprirli. Il puzzo della munnezza da Pianura si è esteso (direi finalmente) fino ai quartieri bene, e questo mi ha fatto ricordare un “aneddoto” tragicamente ironico sulla miopia di quanti si illudono di rimane immuni dagli effetti del male commesso, raccontato da Saviano in “Gomorra”: quando in una riunione di boss camorristi si decide di stoccare dei rifiuti tossici in un terreno (di proprietà della camorra) vicino a una falda acquifera, uno dei presenti, che forse aveva un po’ di istruzione, espose la sua preoccupazione riguardo alla sicura contaminazione della falda. Al che uno, sicuramente molto più intelligente, rispose: “Che mi importa, io bevo acqua minerale!”. Tutti quelli che finora a Napoli e in Campania (e non solo!) hanno fatto finta di niente (e ora fanno a scaricabarile riguardo alle responsabilità), oggi si ritrovano la porcheria in casa, davanti alle lussuose ville dei quartieri alti, e devono scappare da Napoli per non rischiare di morire mentre ancora la vedono, per riecheggiare il proverbio. Certo, l’emergenza prima o poi sarà risolta, ma abbiamo avuto tuttavia una prova generale di quella che è la situazione in cui tutta la nostra bella civiltà verrà a trovarsi se non si pone urgentemente rimedio alla dissennata distruzione della terra, all’egoistica e infantile ricerca dell’immediato, alla dimenticanza della sostanza di due parole ormai banalizzate nel minestrone mediatico: BENE COMUNE, che si traduce in responsabilità per gli altri ma che, in fondo, è l’unica vera risposta agli stessi interessi privati in quanto, se la barca affonda, anneghiamo tutti, compreso l’equipaggio e i passeggeri di prima classe.

La geenna, maleodorante spettacolo per chi lasciava Gerusalemme, era usata come metafora dell’esito di un’esistenza vissuta nel disinteresse per gli altri e perciò contro Dio. Anche la nostra geenna, mostrataci dalla cronaca d’attualità, compreso il disagio che produce, oltre ad essere escrescenza evidente del degrado sociale, etico e politico di un’intera società, ne è allo stesso tempo eloquente metafora, in quanto il disagio sociale che provoca un ambiente urbano immerso nei rifiuti è solo un aspetto del ben più profondo disagio, dell’immobilità che attraversa la società, di cui soprattutto le nuove generazioni ne stanno raccogliendo il frutto, non riuscendo più a sperare un futuro dignitoso, disagio e immobilità causati dall’interesse privato di chi agisce nella sfera pubblica e, dove non ci fosse neppure l’interesse, dall’ignavia di tanti che agiscono solo come comparse inebetite di una farsa grottesca, nella quale l’unica cosa che si riesce a dire è che questo o quello si devono dimettere. Così come occorrono ruspe e tir per liberare Napoli, spero che, fuor di metafora, noi cittadini troveremo coraggio sufficiente per scaricare ben altre immondizie e tutte le loro (eco)balle, in un’altra geenna, quella dei rifiuti pericolosi. ☺

mike.tartaglia@virgilio.it

 

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