prendersi cura
18 Aprile 2010 Share

prendersi cura

 

“Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita. Poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare” (Kahlil Gibran).

        Chi siamo? Una società senza corpo o una società che apre il cuore al corpo della vita? Non c’è vivente in terra, infatti, che non abbia un corpo, una fisicità, un “soma” con le caratteristiche proprie del genere cui appartiene.

             Nella tradizione millenaria che ci precede quest’aspetto della visibilità o fisicità di ogni vivente veniva racchiuso nel termine natura o nell’aggettivo naturale per esprimere quanto era proprio di un essere vivente e quali fossero le sue peculiarità per il modo di vivere: nascita, sviluppo, decadenza e morte: tutto era  “naturale”. Nella cultura, in particolare cristiana, tutto questo veniva letto come “legge naturale” nel senso che era un qualcosa di iscritto oltre la volontà del soggetto, normativo non perché voluto, ma perché identificativo dell’essere. Legge naturale che si ricava da una plurisecolare osservazione del processo di esistenza organizzato in concetti culturali con implicanze  per i comportamenti relazionali individuali e sociali (etica personale e di gruppo).

Il rischio era un eccessivo immobilismo e fissità o la consapevolezza di cambiamenti talmente inavvertibili nel tempo da coniare il detto che  «la natura non fa salti o passaggi repentini» (natura non facit saltus); di conseguenza sul piano etico era “deviante” colui che non rispettava il dettato naturale razionalmente interpretato.

 L’equilibrio tra natura e le particolarità differenziate, esclusive di un vivente venivano ricomposte nella combinazione di dato comune (sostanza) ed elementi propri (accidenti): ogni essere così veniva letto nella sua perennità (sostanza) e diversità (accidenti). L’uomo stesso o la natura umana venivano ricomposti nella famosa definizione aristotelica di animale ragionevole (animal rationalis) o nella definizione, più complessa e successiva, articolata di Boezio, di “sostanza individuale di natura razionale” (rationalis naturae individua substantia).

Le parole cardine che descrivessero il rapporto libero di un soggetto umano verso le altre esistenze naturali vennero prese, per analogia, dalle attività umane, sia fisiche che spirituali, all’interno di quell’attività primordiale che segnò il passaggio evolutivo dell’uomo da cacciatore – raccoglitore di frutta spontanea a coltivatore della terra, comportando il passaggio da nomade a residente, abitante di villaggi. Ne richiamo solo due.

Per primo il verbo latino colo-colere  (coltivare, aver cura)  da cui, “colui che abita” in un posto, il “residente”  è detto incola. Il participio passato del verbo colo-colere, cultum, è la parola da cui derivano “colto – cultura” (colui che coltiva le conoscenze e i saperi e ne fa patrimonio) “culto” (colui che coltiva il rapporto con la divinità in gesti e opere), arte culinaria (l’arte di colui che coltiva la preparazione dei cibi, i gusti,  l’armonia dei sapori per il nutrimento dell’uomo). Aver cura della intelligenza/conoscenza, della esistenza/vita e della relazione trascendente con Dio, è l’arte con cui l’uomo ha cura di sé e del mondo, dalla terra al cielo, ovvero dell’uomo “adulto” e “responsabile”.

Un secondo  vocabolo ci deriva dalla combinazione di due parole latine: facere = fare (detto di un essere umano) e manis da cui “manufatto”. La parola richiama la capacità del fare come attuazione di un pensiero, di un progetto, e di fare con le proprie mani ovvero realizzare di persona. Quando andiamo in giro per il mondo che sia il nostro piccolo Molise o i continenti vari, contempliamo i “manufatti dell’uomo, in ogni campo, dalla cittadella di Altilia, al tempio di Pietrabbondante, ad una cattedrale, a un tempio buddista, un ponte, un quadro ecc, a partire dai primi manufatti che furono i vasi di terracotta per conservare cibi e bevande.

La cultura compiuta dell’uomo (adulta) e responsabile (criticamente ed eticamente valida) si è espressa, con varianti multiple nel tempo e nelle culture, ma soprattutto nel nostro mondo occidentale con queste due categorie: aver cura facendo, o fare avendo cura. Non tutto il fare è stato letto come “cura”, ma spesso invece è stato violenza, oppressione, manipolazione negativa; non ogni “cura” desiderata e invocata è stata realizzata avvertendo in ciò una omissione, una esclusione, una emarginazione, un disconoscimento della dignità del vivente.

Oggi in un mondo che ormai scompone la natura, con la tentazione di ricomporla al proprio piacimento, con inaudite possibilità di fare – pensiamo  al potere delle tecnologie – , la domanda a cui tutti dobbiamo rispondere è perenne, anche se da porre in contesti nuovi e di fronte a mezzi nuovi: saremo ancora capaci di aver cura e di produrre manufatti che non siano alla fine manipolazioni disumanizzanti ma che esprimano la cura amorevole di tutto ciò che esiste?

  Credenti e non credenti ci giochiamo il nostro volto e la nostra dignità, dalle risposte che daremo. Non risposte qualsiasi perché possibili, ma solo risposte che coltivino la bellezza e la dignità di ogni essere e di ogni vivente e tutto operando sempre e solo per questa finalità. Erikson, grande psicoterapeuta americano, dà questa definizione dell’adulto: “colui che risponde di (o ha cura di) sé, degli altri e del mondo”. ☺

 

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