Negli ultimi anni una parola inglese negli ambienti lavorativi e, di riflesso, nel diritto del lavoro ha trovato sempre più largo impiego. La parola in questione è mobbing, un gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione latina "mobile vulgus", che significa "gentaglia (mobile)", cioè "una folla grande e disordinata", soprattutto "dedita al vandalismo e alle sommosse". Da qui il significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione spregiativa, per cui "mob" era, anche in assenza di azioni violente, un equivalente pressapoco dell'italiano "plebaglia". Al termine mobbing è correlato anche il lemma – di uso nello slang statunitense – mobster, che indica genericamente chi appartiene alla malavita o adotta un comportamento malavitoso. Nei paesi anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro, che in Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si utilizzano lemmi più specifici: harassment (utilizzato anche per molestie domestiche), abuse (maltrattamen- to), intimidation.
La Cassazione, con sentenza del 6 marzo 2006, n° 4774, ha definito il mobbing come “una condotta sistematica e protratta nel tempo con caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultanti da connotazione emulativa e pretestuosa che concreta per le sue caratteristiche vessatorie una lesione dell'integrità fisica e della personalità del lavoratore realizzata con comportamenti materiali anche non costituenti inadempimento”. Quello di cui si vuol discutere, invece, è il ruolo del legale una volta che tale comportamento è stato posto in essere. Non solo. Difatti le difficoltà esistenziali correlate a questa odiosa pratica necessitano, si potrebbe dire inevitabilmente, di un supporto di natura medica.
Sarà quindi necessario un terreno condiviso, tra l'ambito legale e quello clinico, per condurre il lavoratore lungo un percorso costruttivo per la propria esistenza e per la propria salute psichica ma anche sul piano economico e professionale per gli eventi accaduti sul lavoro.
Ottenere una somma, anche ingente, una volta che si decida di risolvere il rapporto di lavoro, non è sufficiente se il lavoratore non riesce ad elaborare gli eventi occorsigli con adeguato sostegno psicologico, anzi lo stesso rischia di ricadere in dinamiche negative quando gli si ripresenterà una nuova occasione lavorativa o, peggio, rischierà il c.d. doppio mobbing, cioè crisi in ambito familiare. Il descritto percorso ricostruttivo permetterà al lavoratore/paziente di abbandonare la condizione di vittima e giungere alla affermazione dei propri diritti al lavoro, alla salute ed al rispetto. Il risarcimento, chiaramente, non potrà che aumentare gli effetti benefici della terapia, al di là di facili ironie, perché quanto accaduto viene riconosciuto in maniera concreta e tangibile.
Affinché questo avvenga è quindi necessario un confronto costruttivo tra i due ambiti – legale e medico – a tutto vantaggio del cliente/lavoratore/paziente, che percepirà la coerenza complessiva della assistenza che sta ricevendo, con palese riduzione dell'ansia generata dalla situazione.
L'ambito legale e quello clinico, in una fattispecie come quella del mobbing, possono entrare in contatto in diverse occasioni. Ad esempio quando si è nella fase embrionale del comportamento che, però, ancora non si connota in pieno come mobbing, cioè quando si è in un clima non sereno e non cordiale all'interno del contesto lavorativo, con ritmi lavorativi stressanti, elevata competitività e così via. In questo momento non vi sono ancora dei danni tangibili, quanto una sorta di “fastidio” nei confronti del lavoro, una viatico per una possibile marginalizzazione. Il legale può già intervenire per verificare la situazione del lavoratore. Il primo consiglio che generalmente viene dato è di un intervento diretto o con l'ausilio del sindacato presso la direzione del personale. Un intervento ragionato e condiviso, infatti, spesso può spegnere sul nascere la conflittualità: si pensi ad un trasferimento di reparto o ad una riduzione di orario o al supporto di uno psicologo, evitando la deriva del mobbing. Il supporto psicologico, però, non sempre trova l'accoglimento da parte del lavoratore che,
andando dallo psicologo, ammetterebbe una sua difficoltà. Qualora, comunque, questo primo intervento sia stato inutile o si sia giunti ad una fase avanzata, per cui il mobbing sia conclamato, ancora l'ambito clinico e legale possono cooperare. Infatti, il legale potrà chiedere al medico una verifica in merito alla correttezza dell'ideazione del cliente, un supporto per l'ampliamento della narrativa dei fatti, il rilascio di una certificazione specificante la diagnosi specifica ed il nesso tra la patologia e la condizione lavorativa. Tutti questi elementi saranno necessari prima del tentativo obbligatorio di conciliazione anche per non esporre troppo il lavoratore al rischio di reazioni da parte dell'azienda. È appena il caso di ricordare che la giurisprudenza tende ad escludere la diffamazione o la calunnia se viene a mancare la volontà di offendere da parte dell'autore del reato, come nel caso di un lavoratore convinto che vi sia un nesso tra la sua malattia e la condotta aziendale. La certificazione specialistica è poi strumento utile nel caso di controllo domiciliare dell'assenza per malattia legata al mobbing.
La fase successiva è quella della conciliazione, ossia delle possibili trattative tra azienda e lavoratore. Trattative che possono, grossomodo, essere di due tipi:
1) trattativa conservativa del rapporto di lavoro: in questo caso si vuole salvare il rapporto di lavoro con la proposizione di un ruolo alternativo, con un trasferimento, una precisa specificazione delle mansioni, ecc.;
2) trattativa risolutiva del rapporto di lavoro: il rapporto di lavoro non può essere salvato. Ne consegue che si punterà ad ottenere un risarcimento per i danni e per la perdita del posto.
Tuttavia, qualora le trattative falliscano, il legale può ricorrere innanzi al Giudice del Lavoro. Già normalmente, per la parte, un giudizio è fonte di stress; per una persona sottoposta anche al “martirio” del mobbing, poi, ci sono da tenere in considerazione (e qui è fortemente consigliato il supporto clinico) le fasi in cui l'azienda si difenderà (spesso con lancinanti menzogne) e la Consulenza Tecnica di Ufficio, che il Giudice potrà disporre per l'accertamento del danno psico-fisico.
Si arriva alla prima udienza dove il Giudice tenterà, di nuovo, una conciliazione tra le parti. Se questa fallirà verranno ammesse le prove – anche testimoniali – che siano ritenute (sempre dal Giudice) rilevanti. In base ad esse, qualora emergano condotte di mobbing verrà disposta una perizia per la quantificazione del danno biologico (se richiesto). Il lavoratore può produrre anche la perizia di un proprio consulente (consulenza tecnica di parte).
Invero la documentazione necessaria per poter avviare un giudizio di mobbing deve prevedere almeno una certificazione dello psicologo che ha in cura il lavoratore (fondamentale per l'ampliamento della narrativa ma anche per meglio specificare la diagnosi ed individuare il nesso causale ecc.). È importante sapere che i soggetti non in grado di permettersi uno specialista possono essere indirizzati al Centro Psico-Sociale di zona, che rilascerà una certificazione valida; vi può essere la certificazione della clinica del lavoro, normalmente elaborata in accordo tra il neurologo (che escluderà patologie organiche) lo psicologo clinico (per la parte diagnostica) e lo psichiatra (soprattutto per la specificazione del nesso causale); la certificazione, infine, del medico legale per la quantificazione (che comunque sarà del Giudice) del danno psico-fisico in termini percentuali.
È chiaro che vincere, come detto, porterà un miglioramento anche delle condizioni psico-fisiche del lavoratore che vedrà come esistenti le cause del suo turbamento esistenziale.
Può però ben succedere di perdere la causa o che la liquidazione sia molto inferiore alle aspettative del dipendente. Questi sono i casi in cui il sostegno clinico è più necessario, anche per condurre il mobbizzato ad accettare ed elaborare quanto accadutogli.
Tutto quanto esposto fin qui fa comprendere come, in una causa di questo tipo, la cooperazione tra psicologo ed avvocato possa essere determinante per il buon esito della stessa e perché vi sia una evoluzione psicologica del quadro complessivo del mobbizzato, in un risultato che non deve essere visto come la fredda unione di due professionalità ma l'avvio di una strada che possa condurre un lavoratore fuori da una esperienza dolorosa e traumatica.
Quanto sopra descritto, tuttavia, non deve indurre a pensare che sia agevole fare una causa per mobbing. Occorre, infatti, evidenziare che allo stato, nel nostro ordinamento, non esiste una legge sul mobbing ed i giudici sono ancora restii a trattare una fattispecie ancora non codificata, ancorando le condotte – astrattamente riconducibili al fenomeno del mobbing – alle fattispecie normative già previste (mutamento di mansioni, trasferimento, sanzioni disciplinari, licenziamento, ecc.).
Si attende, quindi, l'approvazione di una legge che definitivamente definisca il mobbing e lo disciplini compiutamente.☺
marx73@virgilio.it
Negli ultimi anni una parola inglese negli ambienti lavorativi e, di riflesso, nel diritto del lavoro ha trovato sempre più largo impiego. La parola in questione è mobbing, un gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione latina "mobile vulgus", che significa "gentaglia (mobile)", cioè "una folla grande e disordinata", soprattutto "dedita al vandalismo e alle sommosse". Da qui il significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione spregiativa, per cui "mob" era, anche in assenza di azioni violente, un equivalente pressapoco dell'italiano "plebaglia". Al termine mobbing è correlato anche il lemma – di uso nello slang statunitense – mobster, che indica genericamente chi appartiene alla malavita o adotta un comportamento malavitoso. Nei paesi anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro, che in Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si utilizzano lemmi più specifici: harassment (utilizzato anche per molestie domestiche), abuse (maltrattamen- to), intimidation.
La Cassazione, con sentenza del 6 marzo 2006, n° 4774, ha definito il mobbing come “una condotta sistematica e protratta nel tempo con caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultanti da connotazione emulativa e pretestuosa che concreta per le sue caratteristiche vessatorie una lesione dell'integrità fisica e della personalità del lavoratore realizzata con comportamenti materiali anche non costituenti inadempimento”. Quello di cui si vuol discutere, invece, è il ruolo del legale una volta che tale comportamento è stato posto in essere. Non solo. Difatti le difficoltà esistenziali correlate a questa odiosa pratica necessitano, si potrebbe dire inevitabilmente, di un supporto di natura medica.
Sarà quindi necessario un terreno condiviso, tra l'ambito legale e quello clinico, per condurre il lavoratore lungo un percorso costruttivo per la propria esistenza e per la propria salute psichica ma anche sul piano economico e professionale per gli eventi accaduti sul lavoro.
Ottenere una somma, anche ingente, una volta che si decida di risolvere il rapporto di lavoro, non è sufficiente se il lavoratore non riesce ad elaborare gli eventi occorsigli con adeguato sostegno psicologico, anzi lo stesso rischia di ricadere in dinamiche negative quando gli si ripresenterà una nuova occasione lavorativa o, peggio, rischierà il c.d. doppio mobbing, cioè crisi in ambito familiare. Il descritto percorso ricostruttivo permetterà al lavoratore/paziente di abbandonare la condizione di vittima e giungere alla affermazione dei propri diritti al lavoro, alla salute ed al rispetto. Il risarcimento, chiaramente, non potrà che aumentare gli effetti benefici della terapia, al di là di facili ironie, perché quanto accaduto viene riconosciuto in maniera concreta e tangibile.
Affinché questo avvenga è quindi necessario un confronto costruttivo tra i due ambiti – legale e medico – a tutto vantaggio del cliente/lavoratore/paziente, che percepirà la coerenza complessiva della assistenza che sta ricevendo, con palese riduzione dell'ansia generata dalla situazione.
L'ambito legale e quello clinico, in una fattispecie come quella del mobbing, possono entrare in contatto in diverse occasioni. Ad esempio quando si è nella fase embrionale del comportamento che, però, ancora non si connota in pieno come mobbing, cioè quando si è in un clima non sereno e non cordiale all'interno del contesto lavorativo, con ritmi lavorativi stressanti, elevata competitività e così via. In questo momento non vi sono ancora dei danni tangibili, quanto una sorta di “fastidio” nei confronti del lavoro, una viatico per una possibile marginalizzazione. Il legale può già intervenire per verificare la situazione del lavoratore. Il primo consiglio che generalmente viene dato è di un intervento diretto o con l'ausilio del sindacato presso la direzione del personale. Un intervento ragionato e condiviso, infatti, spesso può spegnere sul nascere la conflittualità: si pensi ad un trasferimento di reparto o ad una riduzione di orario o al supporto di uno psicologo, evitando la deriva del mobbing. Il supporto psicologico, però, non sempre trova l'accoglimento da parte del lavoratore che,
andando dallo psicologo, ammetterebbe una sua difficoltà. Qualora, comunque, questo primo intervento sia stato inutile o si sia giunti ad una fase avanzata, per cui il mobbing sia conclamato, ancora l'ambito clinico e legale possono cooperare. Infatti, il legale potrà chiedere al medico una verifica in merito alla correttezza dell'ideazione del cliente, un supporto per l'ampliamento della narrativa dei fatti, il rilascio di una certificazione specificante la diagnosi specifica ed il nesso tra la patologia e la condizione lavorativa. Tutti questi elementi saranno necessari prima del tentativo obbligatorio di conciliazione anche per non esporre troppo il lavoratore al rischio di reazioni da parte dell'azienda. È appena il caso di ricordare che la giurisprudenza tende ad escludere la diffamazione o la calunnia se viene a mancare la volontà di offendere da parte dell'autore del reato, come nel caso di un lavoratore convinto che vi sia un nesso tra la sua malattia e la condotta aziendale. La certificazione specialistica è poi strumento utile nel caso di controllo domiciliare dell'assenza per malattia legata al mobbing.
La fase successiva è quella della conciliazione, ossia delle possibili trattative tra azienda e lavoratore. Trattative che possono, grossomodo, essere di due tipi:
1) trattativa conservativa del rapporto di lavoro: in questo caso si vuole salvare il rapporto di lavoro con la proposizione di un ruolo alternativo, con un trasferimento, una precisa specificazione delle mansioni, ecc.;
2) trattativa risolutiva del rapporto di lavoro: il rapporto di lavoro non può essere salvato. Ne consegue che si punterà ad ottenere un risarcimento per i danni e per la perdita del posto.
Tuttavia, qualora le trattative falliscano, il legale può ricorrere innanzi al Giudice del Lavoro. Già normalmente, per la parte, un giudizio è fonte di stress; per una persona sottoposta anche al “martirio” del mobbing, poi, ci sono da tenere in considerazione (e qui è fortemente consigliato il supporto clinico) le fasi in cui l'azienda si difenderà (spesso con lancinanti menzogne) e la Consulenza Tecnica di Ufficio, che il Giudice potrà disporre per l'accertamento del danno psico-fisico.
Si arriva alla prima udienza dove il Giudice tenterà, di nuovo, una conciliazione tra le parti. Se questa fallirà verranno ammesse le prove – anche testimoniali – che siano ritenute (sempre dal Giudice) rilevanti. In base ad esse, qualora emergano condotte di mobbing verrà disposta una perizia per la quantificazione del danno biologico (se richiesto). Il lavoratore può produrre anche la perizia di un proprio consulente (consulenza tecnica di parte).
Invero la documentazione necessaria per poter avviare un giudizio di mobbing deve prevedere almeno una certificazione dello psicologo che ha in cura il lavoratore (fondamentale per l'ampliamento della narrativa ma anche per meglio specificare la diagnosi ed individuare il nesso causale ecc.). È importante sapere che i soggetti non in grado di permettersi uno specialista possono essere indirizzati al Centro Psico-Sociale di zona, che rilascerà una certificazione valida; vi può essere la certificazione della clinica del lavoro, normalmente elaborata in accordo tra il neurologo (che escluderà patologie organiche) lo psicologo clinico (per la parte diagnostica) e lo psichiatra (soprattutto per la specificazione del nesso causale); la certificazione, infine, del medico legale per la quantificazione (che comunque sarà del Giudice) del danno psico-fisico in termini percentuali.
È chiaro che vincere, come detto, porterà un miglioramento anche delle condizioni psico-fisiche del lavoratore che vedrà come esistenti le cause del suo turbamento esistenziale.
Può però ben succedere di perdere la causa o che la liquidazione sia molto inferiore alle aspettative del dipendente. Questi sono i casi in cui il sostegno clinico è più necessario, anche per condurre il mobbizzato ad accettare ed elaborare quanto accadutogli.
Tutto quanto esposto fin qui fa comprendere come, in una causa di questo tipo, la cooperazione tra psicologo ed avvocato possa essere determinante per il buon esito della stessa e perché vi sia una evoluzione psicologica del quadro complessivo del mobbizzato, in un risultato che non deve essere visto come la fredda unione di due professionalità ma l'avvio di una strada che possa condurre un lavoratore fuori da una esperienza dolorosa e traumatica.
Quanto sopra descritto, tuttavia, non deve indurre a pensare che sia agevole fare una causa per mobbing. Occorre, infatti, evidenziare che allo stato, nel nostro ordinamento, non esiste una legge sul mobbing ed i giudici sono ancora restii a trattare una fattispecie ancora non codificata, ancorando le condotte – astrattamente riconducibili al fenomeno del mobbing – alle fattispecie normative già previste (mutamento di mansioni, trasferimento, sanzioni disciplinari, licenziamento, ecc.).
Si attende, quindi, l'approvazione di una legge che definitivamente definisca il mobbing e lo disciplini compiutamente.☺
Negli ultimi anni una parola inglese negli ambienti lavorativi e, di riflesso, nel diritto del lavoro ha trovato sempre più largo impiego. La parola in questione è mobbing, un gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione latina "mobile vulgus", che significa "gentaglia (mobile)", cioè "una folla grande e disordinata", soprattutto "dedita al vandalismo e alle sommosse". Da qui il significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione spregiativa, per cui "mob" era, anche in assenza di azioni violente, un equivalente pressapoco dell'italiano "plebaglia". Al termine mobbing è correlato anche il lemma – di uso nello slang statunitense – mobster, che indica genericamente chi appartiene alla malavita o adotta un comportamento malavitoso. Nei paesi anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro, che in Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si utilizzano lemmi più specifici: harassment (utilizzato anche per molestie domestiche), abuse (maltrattamen- to), intimidation.
La Cassazione, con sentenza del 6 marzo 2006, n° 4774, ha definito il mobbing come “una condotta sistematica e protratta nel tempo con caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultanti da connotazione emulativa e pretestuosa che concreta per le sue caratteristiche vessatorie una lesione dell'integrità fisica e della personalità del lavoratore realizzata con comportamenti materiali anche non costituenti inadempimento”. Quello di cui si vuol discutere, invece, è il ruolo del legale una volta che tale comportamento è stato posto in essere. Non solo. Difatti le difficoltà esistenziali correlate a questa odiosa pratica necessitano, si potrebbe dire inevitabilmente, di un supporto di natura medica.
Sarà quindi necessario un terreno condiviso, tra l'ambito legale e quello clinico, per condurre il lavoratore lungo un percorso costruttivo per la propria esistenza e per la propria salute psichica ma anche sul piano economico e professionale per gli eventi accaduti sul lavoro.
Ottenere una somma, anche ingente, una volta che si decida di risolvere il rapporto di lavoro, non è sufficiente se il lavoratore non riesce ad elaborare gli eventi occorsigli con adeguato sostegno psicologico, anzi lo stesso rischia di ricadere in dinamiche negative quando gli si ripresenterà una nuova occasione lavorativa o, peggio, rischierà il c.d. doppio mobbing, cioè crisi in ambito familiare. Il descritto percorso ricostruttivo permetterà al lavoratore/paziente di abbandonare la condizione di vittima e giungere alla affermazione dei propri diritti al lavoro, alla salute ed al rispetto. Il risarcimento, chiaramente, non potrà che aumentare gli effetti benefici della terapia, al di là di facili ironie, perché quanto accaduto viene riconosciuto in maniera concreta e tangibile.
Affinché questo avvenga è quindi necessario un confronto costruttivo tra i due ambiti – legale e medico – a tutto vantaggio del cliente/lavoratore/paziente, che percepirà la coerenza complessiva della assistenza che sta ricevendo, con palese riduzione dell'ansia generata dalla situazione.
L'ambito legale e quello clinico, in una fattispecie come quella del mobbing, possono entrare in contatto in diverse occasioni. Ad esempio quando si è nella fase embrionale del comportamento che, però, ancora non si connota in pieno come mobbing, cioè quando si è in un clima non sereno e non cordiale all'interno del contesto lavorativo, con ritmi lavorativi stressanti, elevata competitività e così via. In questo momento non vi sono ancora dei danni tangibili, quanto una sorta di “fastidio” nei confronti del lavoro, una viatico per una possibile marginalizzazione. Il legale può già intervenire per verificare la situazione del lavoratore. Il primo consiglio che generalmente viene dato è di un intervento diretto o con l'ausilio del sindacato presso la direzione del personale. Un intervento ragionato e condiviso, infatti, spesso può spegnere sul nascere la conflittualità: si pensi ad un trasferimento di reparto o ad una riduzione di orario o al supporto di uno psicologo, evitando la deriva del mobbing. Il supporto psicologico, però, non sempre trova l'accoglimento da parte del lavoratore che,
andando dallo psicologo, ammetterebbe una sua difficoltà. Qualora, comunque, questo primo intervento sia stato inutile o si sia giunti ad una fase avanzata, per cui il mobbing sia conclamato, ancora l'ambito clinico e legale possono cooperare. Infatti, il legale potrà chiedere al medico una verifica in merito alla correttezza dell'ideazione del cliente, un supporto per l'ampliamento della narrativa dei fatti, il rilascio di una certificazione specificante la diagnosi specifica ed il nesso tra la patologia e la condizione lavorativa. Tutti questi elementi saranno necessari prima del tentativo obbligatorio di conciliazione anche per non esporre troppo il lavoratore al rischio di reazioni da parte dell'azienda. È appena il caso di ricordare che la giurisprudenza tende ad escludere la diffamazione o la calunnia se viene a mancare la volontà di offendere da parte dell'autore del reato, come nel caso di un lavoratore convinto che vi sia un nesso tra la sua malattia e la condotta aziendale. La certificazione specialistica è poi strumento utile nel caso di controllo domiciliare dell'assenza per malattia legata al mobbing.
La fase successiva è quella della conciliazione, ossia delle possibili trattative tra azienda e lavoratore. Trattative che possono, grossomodo, essere di due tipi:
1) trattativa conservativa del rapporto di lavoro: in questo caso si vuole salvare il rapporto di lavoro con la proposizione di un ruolo alternativo, con un trasferimento, una precisa specificazione delle mansioni, ecc.;
2) trattativa risolutiva del rapporto di lavoro: il rapporto di lavoro non può essere salvato. Ne consegue che si punterà ad ottenere un risarcimento per i danni e per la perdita del posto.
Tuttavia, qualora le trattative falliscano, il legale può ricorrere innanzi al Giudice del Lavoro. Già normalmente, per la parte, un giudizio è fonte di stress; per una persona sottoposta anche al “martirio” del mobbing, poi, ci sono da tenere in considerazione (e qui è fortemente consigliato il supporto clinico) le fasi in cui l'azienda si difenderà (spesso con lancinanti menzogne) e la Consulenza Tecnica di Ufficio, che il Giudice potrà disporre per l'accertamento del danno psico-fisico.
Si arriva alla prima udienza dove il Giudice tenterà, di nuovo, una conciliazione tra le parti. Se questa fallirà verranno ammesse le prove – anche testimoniali – che siano ritenute (sempre dal Giudice) rilevanti. In base ad esse, qualora emergano condotte di mobbing verrà disposta una perizia per la quantificazione del danno biologico (se richiesto). Il lavoratore può produrre anche la perizia di un proprio consulente (consulenza tecnica di parte).
Invero la documentazione necessaria per poter avviare un giudizio di mobbing deve prevedere almeno una certificazione dello psicologo che ha in cura il lavoratore (fondamentale per l'ampliamento della narrativa ma anche per meglio specificare la diagnosi ed individuare il nesso causale ecc.). È importante sapere che i soggetti non in grado di permettersi uno specialista possono essere indirizzati al Centro Psico-Sociale di zona, che rilascerà una certificazione valida; vi può essere la certificazione della clinica del lavoro, normalmente elaborata in accordo tra il neurologo (che escluderà patologie organiche) lo psicologo clinico (per la parte diagnostica) e lo psichiatra (soprattutto per la specificazione del nesso causale); la certificazione, infine, del medico legale per la quantificazione (che comunque sarà del Giudice) del danno psico-fisico in termini percentuali.
È chiaro che vincere, come detto, porterà un miglioramento anche delle condizioni psico-fisiche del lavoratore che vedrà come esistenti le cause del suo turbamento esistenziale.
Può però ben succedere di perdere la causa o che la liquidazione sia molto inferiore alle aspettative del dipendente. Questi sono i casi in cui il sostegno clinico è più necessario, anche per condurre il mobbizzato ad accettare ed elaborare quanto accadutogli.
Tutto quanto esposto fin qui fa comprendere come, in una causa di questo tipo, la cooperazione tra psicologo ed avvocato possa essere determinante per il buon esito della stessa e perché vi sia una evoluzione psicologica del quadro complessivo del mobbizzato, in un risultato che non deve essere visto come la fredda unione di due professionalità ma l'avvio di una strada che possa condurre un lavoratore fuori da una esperienza dolorosa e traumatica.
Quanto sopra descritto, tuttavia, non deve indurre a pensare che sia agevole fare una causa per mobbing. Occorre, infatti, evidenziare che allo stato, nel nostro ordinamento, non esiste una legge sul mobbing ed i giudici sono ancora restii a trattare una fattispecie ancora non codificata, ancorando le condotte – astrattamente riconducibili al fenomeno del mobbing – alle fattispecie normative già previste (mutamento di mansioni, trasferimento, sanzioni disciplinari, licenziamento, ecc.).
Si attende, quindi, l'approvazione di una legge che definitivamente definisca il mobbing e lo disciplini compiutamente.☺
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