Il Natale è diventato ormai, nella tradizione delle culture che si rifanno al cristianesimo, sinonimo di festa dell’abbondanza, del cibo che si spreca, oltre che delle spese per cose inutili (per chi se le può permettere). L’origine di questa situazione è da rintracciare forse nelle abitudini alimentari dei contadini che al termine dell’anno, che significava anche la fine dei lavori agricoli, si concedevano cibi meno poveri e frugali; il Natale era l’occasione per eccedere rispetto al resto dell’anno. Oggi, invece, poiché già normalmente si spreca, a Natale si raggiunge, nell’euforia di far festa, un livello consumistico indecente. Ma fare festa per cosa? Il problema di molte ricorrenze cristiane, diventate consuetudini sociali, è che si ha un contenitore senza contenuto, tanto che forse fanno bene gli inglesi a volere abolire il riferimento a Cristo, perché non è certamente il primo dei pensieri nella testa della gente che festeggia il Natale.
Eppure il Vangelo ci fa notare che un certo legame, nel Natale, tra Gesù e il mangiare c’è: se leggiamo il Vangelo di Luca, notiamo che quando Gesù è nato è stato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia e il riferimento ad essa compare per ben tre volte nei diversi racconti collegati con la nascita (Lc 2,7.12.16); come insegnano i biblisti, quando una cosa è detta per tre volte, deve avere una certa importanza. Lungi dall’essere un riferimento alla cattiveria del padrone di un fantomatico albergo oppure alla grande umiltà di Gesù che è nato per la nostra tradizione al “freddo e al gelo”, la mangiatoia riecheggia l’inizio del libro di Isaia (che è per eccellenza il profeta del Natale) quando Dio stesso dice: “Ho cresciuto dei figli, li ho esaltati, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue riconosce il suo proprietario, e l’asino la mangiatoia del suo Signore, ma Israele non conosce, e il mio popolo non comprende” (Is 1,2-3). Il messaggio del testo è chiaro: gli israeliti non sono docili verso Dio, a differenza degli animali domestici, che allo stesso tempo sono anche aiutanti essenziali per i loro padroni: come senza di essi gli uomini non potevano vivere bene (non dimentichiamo che proprio questi animali permettevano un aumento della capacità produttiva dell’uomo, essendo paragonabili alle nostre macchine moderne) così, senza Israele che collabora, Dio non poteva realizzare il suo progetto sull’umanità.
Luca va oltre nell’interpretazione del testo: la mangiatoia non è del Signore in quanto padrone degli animali, ma è sua in quanto egli stesso si dà come alimento, cioè dona completamente se stesso. Giustamente i Padri della Chiesa hanno fatto immediatamente il collegamento con l’eucaristia, il sacramento attraverso cui Gesù si dona al credente, ma l’eucaristia ci ricorda anche (“…fate questo in memoria di me”) che il dono non è senza conseguenze: “mangiare” Gesù significa assimilarlo a sé, trasformarsi in lui, non in una forma magica di alienazione da sé, come se fosse una sorta di invasamento mistico, bensì facendo proprio il suo stile, la sua logica di rinuncia all’affermazione di sé, per permettere all’al- tro di vivere. In Gesù avviene quindi, per Luca, l’inversione della metafora di Isaia: egli è Signore non perché ha dei sudditi docili come animali addomesticati, bensì perché si prende cura di essi mettendo tutto, anche se stesso, a loro disposizione. Purtroppo, quella stessa storia cristiana nella quale si è colto il nesso tra il segno del corpo eucaristico e il racconto del Natale, è stata attraversata da un’altra cultura, quella del dominio e del potere: ciò ha portato ad un’opposta inversione simbolica, che ha rinnegato sia il Vangelo che il profeta Isaia e, in nome di quel “Signore” di cui parla la Scrittura, i cosiddetti cristiani non hanno “mangiato” la sua vita per agire in sua memoria, ma spesso oltre a sottomettere bue e asino, li hanno addirittura “divorati”.
Questa è anche la storia dell’Occidente che, facendosi forte della propria cultura e dei suoi simboli (com- preso il cristianesimo), ha considerato gli altri inferiori e ne ha divorato i beni, la cultura e la stessa vita, diffondendo l’omologazione consumistica del suo natale pagano e facendo passare per diffusione di civiltà l’arraffamento e la distruzione sconsiderata delle risorse. Uno degli slogan più usurati della mentalità capitalistica e consumistica è quello secondo cui nella vita o si mangia o si è mangiati. Il Vangelo insegna invece che solo dando la vita si vive veramente, perché si attua il modo di essere di Dio, a imitazione del bue e dell’asino che per Isaia collaborano con il loro padrone.
È un bene, nonostante le solite critiche bigotte e clericali, che scompaiano tutti i segni cristiani dalla festa che, senza alcuna consapevolezza, viene chiamata Natale, perché quando il cristianesimo si separerà completamente dall’unione innaturale con l’opulenza degli oppressori, i poveri potranno senza nessuna delusione riconoscere, come i pastori, il loro Signore, sapendo che è uno di loro, non avendo trovato posto nell’albergo degli opulenti. ☺
mike.tartaglia@virgilio.it
Il Natale è diventato ormai, nella tradizione delle culture che si rifanno al cristianesimo, sinonimo di festa dell’abbondanza, del cibo che si spreca, oltre che delle spese per cose inutili (per chi se le può permettere). L’origine di questa situazione è da rintracciare forse nelle abitudini alimentari dei contadini che al termine dell’anno, che significava anche la fine dei lavori agricoli, si concedevano cibi meno poveri e frugali; il Natale era l’occasione per eccedere rispetto al resto dell’anno. Oggi, invece, poiché già normalmente si spreca, a Natale si raggiunge, nell’euforia di far festa, un livello consumistico indecente. Ma fare festa per cosa? Il problema di molte ricorrenze cristiane, diventate consuetudini sociali, è che si ha un contenitore senza contenuto, tanto che forse fanno bene gli inglesi a volere abolire il riferimento a Cristo, perché non è certamente il primo dei pensieri nella testa della gente che festeggia il Natale.
Eppure il Vangelo ci fa notare che un certo legame, nel Natale, tra Gesù e il mangiare c’è: se leggiamo il Vangelo di Luca, notiamo che quando Gesù è nato è stato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia e il riferimento ad essa compare per ben tre volte nei diversi racconti collegati con la nascita (Lc 2,7.12.16); come insegnano i biblisti, quando una cosa è detta per tre volte, deve avere una certa importanza. Lungi dall’essere un riferimento alla cattiveria del padrone di un fantomatico albergo oppure alla grande umiltà di Gesù che è nato per la nostra tradizione al “freddo e al gelo”, la mangiatoia riecheggia l’inizio del libro di Isaia (che è per eccellenza il profeta del Natale) quando Dio stesso dice: “Ho cresciuto dei figli, li ho esaltati, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue riconosce il suo proprietario, e l’asino la mangiatoia del suo Signore, ma Israele non conosce, e il mio popolo non comprende” (Is 1,2-3). Il messaggio del testo è chiaro: gli israeliti non sono docili verso Dio, a differenza degli animali domestici, che allo stesso tempo sono anche aiutanti essenziali per i loro padroni: come senza di essi gli uomini non potevano vivere bene (non dimentichiamo che proprio questi animali permettevano un aumento della capacità produttiva dell’uomo, essendo paragonabili alle nostre macchine moderne) così, senza Israele che collabora, Dio non poteva realizzare il suo progetto sull’umanità.
Luca va oltre nell’interpretazione del testo: la mangiatoia non è del Signore in quanto padrone degli animali, ma è sua in quanto egli stesso si dà come alimento, cioè dona completamente se stesso. Giustamente i Padri della Chiesa hanno fatto immediatamente il collegamento con l’eucaristia, il sacramento attraverso cui Gesù si dona al credente, ma l’eucaristia ci ricorda anche (“…fate questo in memoria di me”) che il dono non è senza conseguenze: “mangiare” Gesù significa assimilarlo a sé, trasformarsi in lui, non in una forma magica di alienazione da sé, come se fosse una sorta di invasamento mistico, bensì facendo proprio il suo stile, la sua logica di rinuncia all’affermazione di sé, per permettere all’al- tro di vivere. In Gesù avviene quindi, per Luca, l’inversione della metafora di Isaia: egli è Signore non perché ha dei sudditi docili come animali addomesticati, bensì perché si prende cura di essi mettendo tutto, anche se stesso, a loro disposizione. Purtroppo, quella stessa storia cristiana nella quale si è colto il nesso tra il segno del corpo eucaristico e il racconto del Natale, è stata attraversata da un’altra cultura, quella del dominio e del potere: ciò ha portato ad un’opposta inversione simbolica, che ha rinnegato sia il Vangelo che il profeta Isaia e, in nome di quel “Signore” di cui parla la Scrittura, i cosiddetti cristiani non hanno “mangiato” la sua vita per agire in sua memoria, ma spesso oltre a sottomettere bue e asino, li hanno addirittura “divorati”.
Questa è anche la storia dell’Occidente che, facendosi forte della propria cultura e dei suoi simboli (com- preso il cristianesimo), ha considerato gli altri inferiori e ne ha divorato i beni, la cultura e la stessa vita, diffondendo l’omologazione consumistica del suo natale pagano e facendo passare per diffusione di civiltà l’arraffamento e la distruzione sconsiderata delle risorse. Uno degli slogan più usurati della mentalità capitalistica e consumistica è quello secondo cui nella vita o si mangia o si è mangiati. Il Vangelo insegna invece che solo dando la vita si vive veramente, perché si attua il modo di essere di Dio, a imitazione del bue e dell’asino che per Isaia collaborano con il loro padrone.
È un bene, nonostante le solite critiche bigotte e clericali, che scompaiano tutti i segni cristiani dalla festa che, senza alcuna consapevolezza, viene chiamata Natale, perché quando il cristianesimo si separerà completamente dall’unione innaturale con l’opulenza degli oppressori, i poveri potranno senza nessuna delusione riconoscere, come i pastori, il loro Signore, sapendo che è uno di loro, non avendo trovato posto nell’albergo degli opulenti. ☺
Il Natale è diventato ormai, nella tradizione delle culture che si rifanno al cristianesimo, sinonimo di festa dell’abbondanza, del cibo che si spreca, oltre che delle spese per cose inutili (per chi se le può permettere). L’origine di questa situazione è da rintracciare forse nelle abitudini alimentari dei contadini che al termine dell’anno, che significava anche la fine dei lavori agricoli, si concedevano cibi meno poveri e frugali; il Natale era l’occasione per eccedere rispetto al resto dell’anno. Oggi, invece, poiché già normalmente si spreca, a Natale si raggiunge, nell’euforia di far festa, un livello consumistico indecente. Ma fare festa per cosa? Il problema di molte ricorrenze cristiane, diventate consuetudini sociali, è che si ha un contenitore senza contenuto, tanto che forse fanno bene gli inglesi a volere abolire il riferimento a Cristo, perché non è certamente il primo dei pensieri nella testa della gente che festeggia il Natale.
Eppure il Vangelo ci fa notare che un certo legame, nel Natale, tra Gesù e il mangiare c’è: se leggiamo il Vangelo di Luca, notiamo che quando Gesù è nato è stato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia e il riferimento ad essa compare per ben tre volte nei diversi racconti collegati con la nascita (Lc 2,7.12.16); come insegnano i biblisti, quando una cosa è detta per tre volte, deve avere una certa importanza. Lungi dall’essere un riferimento alla cattiveria del padrone di un fantomatico albergo oppure alla grande umiltà di Gesù che è nato per la nostra tradizione al “freddo e al gelo”, la mangiatoia riecheggia l’inizio del libro di Isaia (che è per eccellenza il profeta del Natale) quando Dio stesso dice: “Ho cresciuto dei figli, li ho esaltati, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue riconosce il suo proprietario, e l’asino la mangiatoia del suo Signore, ma Israele non conosce, e il mio popolo non comprende” (Is 1,2-3). Il messaggio del testo è chiaro: gli israeliti non sono docili verso Dio, a differenza degli animali domestici, che allo stesso tempo sono anche aiutanti essenziali per i loro padroni: come senza di essi gli uomini non potevano vivere bene (non dimentichiamo che proprio questi animali permettevano un aumento della capacità produttiva dell’uomo, essendo paragonabili alle nostre macchine moderne) così, senza Israele che collabora, Dio non poteva realizzare il suo progetto sull’umanità.
Luca va oltre nell’interpretazione del testo: la mangiatoia non è del Signore in quanto padrone degli animali, ma è sua in quanto egli stesso si dà come alimento, cioè dona completamente se stesso. Giustamente i Padri della Chiesa hanno fatto immediatamente il collegamento con l’eucaristia, il sacramento attraverso cui Gesù si dona al credente, ma l’eucaristia ci ricorda anche (“…fate questo in memoria di me”) che il dono non è senza conseguenze: “mangiare” Gesù significa assimilarlo a sé, trasformarsi in lui, non in una forma magica di alienazione da sé, come se fosse una sorta di invasamento mistico, bensì facendo proprio il suo stile, la sua logica di rinuncia all’affermazione di sé, per permettere all’al- tro di vivere. In Gesù avviene quindi, per Luca, l’inversione della metafora di Isaia: egli è Signore non perché ha dei sudditi docili come animali addomesticati, bensì perché si prende cura di essi mettendo tutto, anche se stesso, a loro disposizione. Purtroppo, quella stessa storia cristiana nella quale si è colto il nesso tra il segno del corpo eucaristico e il racconto del Natale, è stata attraversata da un’altra cultura, quella del dominio e del potere: ciò ha portato ad un’opposta inversione simbolica, che ha rinnegato sia il Vangelo che il profeta Isaia e, in nome di quel “Signore” di cui parla la Scrittura, i cosiddetti cristiani non hanno “mangiato” la sua vita per agire in sua memoria, ma spesso oltre a sottomettere bue e asino, li hanno addirittura “divorati”.
Questa è anche la storia dell’Occidente che, facendosi forte della propria cultura e dei suoi simboli (com- preso il cristianesimo), ha considerato gli altri inferiori e ne ha divorato i beni, la cultura e la stessa vita, diffondendo l’omologazione consumistica del suo natale pagano e facendo passare per diffusione di civiltà l’arraffamento e la distruzione sconsiderata delle risorse. Uno degli slogan più usurati della mentalità capitalistica e consumistica è quello secondo cui nella vita o si mangia o si è mangiati. Il Vangelo insegna invece che solo dando la vita si vive veramente, perché si attua il modo di essere di Dio, a imitazione del bue e dell’asino che per Isaia collaborano con il loro padrone.
È un bene, nonostante le solite critiche bigotte e clericali, che scompaiano tutti i segni cristiani dalla festa che, senza alcuna consapevolezza, viene chiamata Natale, perché quando il cristianesimo si separerà completamente dall’unione innaturale con l’opulenza degli oppressori, i poveri potranno senza nessuna delusione riconoscere, come i pastori, il loro Signore, sapendo che è uno di loro, non avendo trovato posto nell’albergo degli opulenti. ☺
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