“Onor del padre”
7 Marzo 2018
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“Onor del padre”

Il 19 giugno del 1910, a Spokane, un comune degli USA nello Stato di Washington, una signora della Chiesa metodista locale organizzò per la prima volta la festa del papà. La scelta cadde su quella data perché coincideva con il compleanno di suo padre, veterano della Guerra di secessione americana. Da allora, non solo negli USA, ma poi anche nel Regno Unito e in altre nazioni, il Father’s Day si festeggia la terza domenica di giugno. Nei Paesi di tradizione religiosa cattolica, quali ad esempio la Spagna e il Portogallo, oltre all’Italia, la festa è invece associata a san Giuseppe, padre putativo di Gesù e, di conseguenza, è celebrata ogni anno il 19 marzo – a differenza della festa della mamma, che cade, in data variabile, la seconda domenica di maggio.

Proprio in vista del 19 marzo, è bello segnalare l’antologia Portami ancora per mano. Poesie per il padre, a cura di M. G. Maioli Loperfido (Crocetti editore, 2001, che raccoglie le parole più appassionate, ora tenere ora amare, che hanno rivolto al loro genitore illustri poeti. Fra questi, oltre ai classici Foscolo, Leopardi, Pascoli, Quasimodo, anche scrittori più recenti, quali Sibilla Aleramo, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Alda Merini, Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, e stranieri, come Sylvia Plath, Ted Hughes, Charles Bukowski e Seamus Heaney.

Ma un altro dei più bei doni (sempre in versi) che ogni figlio potrebbe offrire al proprio padre è un passo della Satira I 6 del poeta latino Quinto Orazio Flacco. In passato, la fortuna di Orazio era legata proprio alla sua produzione satirica, con lunghi componimenti in esametri dall’andamento discorsivo (per esempio la celebre favola del topo di campagna e del topo di città), piuttosto che alla poesia lirica (quella dell’ode del carpe diem, per intendersi), più impegnativa dal punto di vista metrico e linguistico. E non è un caso che nel IV canto dell’Inferno, fra le anime dei poeti antichi mostrategli da Virgilio nel Limbo, Dante ricordi proprio “Orazio satiro” (v. 89).

Nella Satira in questione, che è una delle sue pagine più autobiografiche, Orazio ricorda le due figure più importanti nella sua vita: il padre e Mecenate. Il padre, un liberto di Venosa, ai confini tra Apulia e Lucania, oggi in provincia di Potenza, si trasferì a Roma, dove lavorava come esattore nelle aste pubbliche, per consentire al proprio figlio di seguire i migliori studi del tempo, e curò personalmente la sua educazione morale. Quanto a Mecenate, era una sorta di ‘ministro della cultura’, che, durante l’impero di Augusto, proteggeva e coltivava gli scrittori (di qui il termine mecenatismo), e che aveva accolto presso di sé anche Orazio, senza guardare alle umili origini della sua famiglia, ma apprezzando le sue qualità. Il poeta soffrì per tutta la vita per questo perenne conflitto tra il falso valore della nascita e il vero valore individuale. Così, dopo aver rievocato il primo incontro con Mecenate, Orazio ci tiene a precisare che le proprie doti sono il frutto della buona educazione che ha saputo dargli il padre, di cui ricorda i sacrifici sostenuti per fargli impartire quell’istruzione che un cavaliere o un senatore avrebbero garantito ai propri figli, e il rigore morale di cui lui stesso, maestro incorruttibile, dava prova quando, per controllarne i progressi, lo accompagnava dai vari professori. Infine ne conclude il ritratto con commossa gratitudine: “[…] se la natura permettesse/ a un certo punto di tornare indietro/ e di scegliersi i genitori/ secondo la propria vanità,/ io, contento come sono dei miei,/ non ne vorrei affatto di nuovi,/ neppure miliardari o ministri” (traduzione dal latino di A. M. Pellegrino, Rizzoli, 1995). Del resto, come dice il proverbio, l’onor del figlio è onor del padre.☺

 

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