In un’epoca di esaltazioni nazionalistiche e di guerre fratricide, dovremmo ricordare a tutti noi cos’è la Patria e cosa si intende per educazione alla responsabilità. Un’analisi attenta venne fatta da don Milani in difesa degli obiettori di coscienza definiti vili dai cappellani militari della Toscana: “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri (…). Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione (…). Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei”.
Nello scritto consegnato ai giudici, a seguito della denuncia alla magistratura da parte di un gruppo di ex combattenti, il priore testimoniò l’amore per la giustizia e per i ragazzi: una vita autenticamente umana non poteva prescindere da un percorso educativo costruito sulla comprensione e il rispetto dei più alti valori incarnati dall’uomo. E, proprio in funzione di tale obiettivo, si poneva la necessità di abituare i giovani ad utilizzare gli strumenti della democrazia e della partecipazione attiva e responsabile: “Dovevo ben insegnar come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno di noi deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care” è il motto intraducibile dei migliori giovani americani. “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego” (…). A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni scuola (…). La scuola (…) siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (…) dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (…). Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso (…). In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate (…). E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede (…). Anche il vostro ordinamento riconosce che perfino il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l’ora (…). Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati (…). A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo punto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico (…). Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora” (L.Milani, L’obbedienza non è più una virtù). ☺
a.miccoli@cgilmolise.it
In un’epoca di esaltazioni nazionalistiche e di guerre fratricide, dovremmo ricordare a tutti noi cos’è la Patria e cosa si intende per educazione alla responsabilità. Un’analisi attenta venne fatta da don Milani in difesa degli obiettori di coscienza definiti vili dai cappellani militari della Toscana: “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri (…). Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione (…). Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei”.
Nello scritto consegnato ai giudici, a seguito della denuncia alla magistratura da parte di un gruppo di ex combattenti, il priore testimoniò l’amore per la giustizia e per i ragazzi: una vita autenticamente umana non poteva prescindere da un percorso educativo costruito sulla comprensione e il rispetto dei più alti valori incarnati dall’uomo. E, proprio in funzione di tale obiettivo, si poneva la necessità di abituare i giovani ad utilizzare gli strumenti della democrazia e della partecipazione attiva e responsabile: “Dovevo ben insegnar come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno di noi deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care” è il motto intraducibile dei migliori giovani americani. “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego” (…). A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni scuola (…). La scuola (…) siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (…) dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (…). Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso (…). In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate (…). E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede (…). Anche il vostro ordinamento riconosce che perfino il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l’ora (…). Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati (…). A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo punto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico (…). Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora” (L.Milani, L’obbedienza non è più una virtù). ☺
In un’epoca di esaltazioni nazionalistiche e di guerre fratricide, dovremmo ricordare a tutti noi cos’è la Patria e cosa si intende per educazione alla responsabilità. Un’analisi attenta venne fatta da don Milani in difesa degli obiettori di coscienza definiti vili dai cappellani militari della Toscana: “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri (…). Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione (…). Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei”.
Nello scritto consegnato ai giudici, a seguito della denuncia alla magistratura da parte di un gruppo di ex combattenti, il priore testimoniò l’amore per la giustizia e per i ragazzi: una vita autenticamente umana non poteva prescindere da un percorso educativo costruito sulla comprensione e il rispetto dei più alti valori incarnati dall’uomo. E, proprio in funzione di tale obiettivo, si poneva la necessità di abituare i giovani ad utilizzare gli strumenti della democrazia e della partecipazione attiva e responsabile: “Dovevo ben insegnar come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno di noi deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care” è il motto intraducibile dei migliori giovani americani. “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego” (…). A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni scuola (…). La scuola (…) siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (…) dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (…). Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso (…). In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate (…). E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede (…). Anche il vostro ordinamento riconosce che perfino il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l’ora (…). Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati (…). A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo punto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico (…). Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora” (L.Milani, L’obbedienza non è più una virtù). ☺
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