
Orto sociale
In questo tempo spesso mi sono sentito dire: “beato te che stai in campagna”, “beato te che puoi uscire tra i tuoi olivi e nel tuo orto”. In questo momento di pericolo, per sé e per gli altri, vivere in campagna non immunizza dal virus né tanto meno sottrae ad eventuali contagi, però, sicuramente, riduce di molto la percentuale di rischio, e soprattutto non fa vivere l’affanno psicologico di essere rinchiusi nel proprio appartamento, per quanto esso sia uno spazio vissuto e protetto. Queste circostanze mi hanno dato lo spunto per un progetto che mi ha sempre tempestato il cervello. Il progetto, che le metropoli e le frazioni delle stesse hanno già messo in atto da decenni, si chiama: “orti sociali”.
Riporto integralmente una definizione presa da internet: “Gli orti sociali sono degli appezzamenti di terreno, di dimensioni medio-piccole, collocati in città e assegnati solitamente a persone in condizioni di disagio, oppure ad anziani, portatori di handicap o semplicemente alla comunità. L’idea alla base è offrire la possibilità di produrre, in proprio, ortaggi di norma non destinati alla vendita o comunque senza fine di lucro, attraverso un progetto collettivo in grado di promuovere l’integrazione sociale. Spesso si tratta di coltivazioni biologiche (o almeno a basso impatto ambientale) in aree degradate o periferiche della città. Il concetto di orto sociale si confonde spesso con quello di orto urbano: entrambi hanno, infatti, una collocazione cittadina e sono assegnati non a coltivatori di professione o ad aziende, ma a comuni cittadini. La differenza è legata alla funzione educativa, civica ed etica dell’orto sociale, che manca in quello urbano”.
Ecco, tutti i nostri comuni hanno terreni a ridosso del nucleo abitativo che spesso e volentieri risultano essere diventati discariche a cielo aperto e, nella migliore delle ipotesi, coltivati da cittadini di buona volontà ma che ne fanno un uso strettamente personale senza nessun ritorno collettivo.
Qualche anno fa l’idea di monitorare i terreni comunali a ridosso del nucleo abitativo era parte di un programma elettorale: il monitoraggio doveva comprendere una fotografia dello stato dei luoghi per rendere, nel più breve tempo possibile, coltivabili detti terreni. Il “vallone della terra” di Larino è un esempio straordinario di come terreni comunali fertili e dotati di acqua siano per la maggior parte diventati oggi boscaglia, oltre a trovarci tanta immondizia. Nella fase discendente (ce lo auguriamo) della pandemia è necessario riflettere su questa ricchezza inutilizzata, poiché i benefici traibili sono molteplici e facilmente intuibili. È auspicabile essere lungimiranti poiché “i buoni spesa” purtroppo si esauriscono facilmente e, consentitemi, sono anche un forte colpo all’amor proprio. Un pezzo di terra gratifica la tavola e la persona; non solo, la comunità che mette in atto strategie del genere sarà una comunità migliore, con un forte senso civico e con un futuro roseo, perché ha saputo valorizzare chi ha già dato ed ha saputo insegnare a chi dovrà ancora dare.☺