candidata al nobel
2 Marzo 2011 Share

candidata al nobel

 

“Tra gli Hutu e i Tutsi non c’è mai stata differenza. Ma nel 1994 io donna Tutsi mi sono seduta davanti alle rovine della mia casa. Il primo vicino non c’era più, era stato assassinato dagli Hutu. Il secondo sterminato con la sua famiglia. Ho visto la stessa cosa anche per il terzo vicino. Ho scritto questo libro perché non accada più”. In quarta di copertina c’è già la sintesi del messaggio di questo pugno di pagine che arrivano dritte a toccare la corde più intime della coscienza: “Un giorno vivrò anch’io. Il genocidio del Rwanda raccontato ai giovani” (La Meridiana – Passaggi, € 13,00) scritto da Yolande Mukagasana, ex infermiera Tutsi sopravvissuta al genocidio rwandese del 1994, in cui perse la famiglia, compresi il marito e i tre figli.

In questo agile libro l’autrice affronta le questioni etiche fondamentali che riguardano il genocidio avvenuto nella sua terra e compiuto nell’inquie- tante indifferenza dalla comunità internazionale. Un monito a non dimenticare, a sapere, a trasmettere questa memoria dolorosa ma indispensabile perché certe atrocità non si ripetano: e gli interlocutori privilegiati, i veri destinatari di queste parole scavate nella sofferenza ma rese limpide e forti dalla consapevolezza della testimonianza, non potevano che essere i giovani. Una lettura che dunque, a un paio di mesi dalla Giornata della Memoria per le vittime della Shoah, permette di guardare ancora più lontano, ridando dignità storica e urgenza alla memoria di un genocidio “moderno” che non trova adeguato spessore nella storia che si studia tra i banchi (non parliamo poi del nostro giornalismo).

La Mukagasana, che delinea lucidamente le ragioni che resero possibile quella strage nella coscienza degli Hutu – stabilendo parallelismi sconcertanti con il “Mein Kampf” hitleriano, sul quale del resto molti capi Hutu si sono formati – ne ricostruisce i contorni e le tragicità perché “tutti i bambini e tutte le generazioni un giorno non dicano ‘non lo sapevo’”.

La sua “missione di testimone” – della quale si è sentita in- vestita dopo lo sterminio della sua famiglia – le è valsa la candidatura al Nobel per la Pace 2011 da parte dell’associazione BeneRwanda e del Giardino dei Giusti di Padova, insieme a Pierantonio Costa e Zura Karuhimbi, per il loro impegno nella difesa dei principi dell’umanità e della giustizia durante il genocidio, a rischio della propria vita. Chi sono?

Pierantonio Costa è un ex-console italiano, uno Schindler dei nostri giorni, che durante lo sterminio si stabilì in Burundi per mettere in salvo il maggior numero possibile di persone. Zura è invece una strega buona. È una contadina, una guaritrice animista così povera che cammina senza scarpe. Nata da una famiglia Hutu, quando cominciano le persecuzioni del '94, trasforma la sua casa in rifugio per centinaia di disperati Tutsi. Può farlo perché, grazie all'aspetto misterioso e alle dicerie che la circondano nel villaggio, incute timore e tiene lontani i miliziani. Oggi ha circa 90 anni, ma nessuno, neanche lei, lo sa con precisione. E infine c’è lei, Yolande, un’ex infermiera. E, al di là di tutto, una donna. E, sebbene l’8 marzo in sé per sé piaccia poco o per nulla a chi scrive, è pur vero che, in quanto giornata dedicata alla donna, può essere sottolineato in modo intelligente, sensato, accostandosi ad una candidata al Nobel che ci fa pensare immediatamente, ed a ragione, ad un’altra candidatura: quella portata avanti dal NOPPAW (Nobel Peace Prize for African Women), la campagna per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2011 alle donne africane, tutte, per la straordinaria capacità di tenere in piedi la famiglia, la società, la dignità del loro paese in silenzio, nella quotidianità più scontata e preziosa. La conclusione dell’intensa Introduzione di Mauro Matteucci può bastare: “Per terminare nella speranza, voglio ricordare un incontro con i giovani nel quale racconta di quando si è recata sulla fossa comune dov’erano i corpi dei figli, intrattenendo con loro un colloquio intensissimo, come se parlasse con Dio: in quel momento ha ricevuto la missione di testimone, cui adempie ogni giorno e che dà significato alla propria vita e un possibile orizzonte alla nostra”. Perché i giovani sappiano. ☺

gadelis@libero.it

 

Yolande Mukagasana, nata nel 1954 in Rwanda, è sopravvissuta al genocidio dei Tutsi del 1994. Yolande perse in quell’occasione il marito e i figli riuscendosi a salvare in maniera miracolosa anche attraverso l’aiuto di una donna Hutu.

Dopo il genocidio Yolande si rifugia in Belgio dove, nel 1999, ottiene la cittadinanza. È qui che inizia la sua attività di scrittrice e di attivista cercando di portare, a livello internazionale, l’attenzione sulla tragedia che ha colpito e continua a colpire il Rwanda.

Per la sua attività Yolande ottiene diversi premi tra cui il “Premio Alexander Langer” nel luglio 1998, il “Premio per l’intesa internazionale tra i popoli e i diritti umani”, da parte dell’Accademia europea e l’Università di Iena nel 1999, il “Premio colomba d’oro per la pace” conferitole dalla Fondazione Archivio Disarmo e il Comune di Roma nel luglio 2002, il “Premio donna del XXI secolo per la resistenza” da parte del centro culturale di Shaerbeeck (Belgio) nel marzo 2003 e la “Menzione onorevole UNESCO Educazione alla pace” nel settembre 2003.

Fra le pubblicazioni italiane “La morte non mi ha voluta” e “Le ferite del silenzio” entrambe edite da La Meridiana.

Yolande Mukagasana partecipa, dal 2006, alla Onlus Bene Rwanda con la quale continua a lavorare  per portare la sua testimonianza in Italia e nel resto del mondo.

 

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