Francesco e domenico
“La provedenza, che governa il mondo con quel consiglio nel quale ogni aspetto creato è vinto pria che vada al fondo, però ch’andasse ver lo suo diletto la sposa di colui ch’ad alte grida, disposò lei col sangue benedetto, in sé sicura e anche a lui più fida, due principi ordinò in suo favore che quinci e quindi le fosser per guida. L’un fu tutto serafico in ardore; l’altro per sapienza in terra fue di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 28-39).
Questo lungo incipit introduce la descrizione di due figure complementari della chiesa degli inizi del Duecento: Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Il senso di questi versi è più o meno questo: Dio nel suo misterioso disegno ha fatto sì che la chiesa per cui Gesù ha versato il sangue sulla croce, si munisse di due strumenti che la rimettessero sulla strada di una maggiore fedeltà a Cristo attraverso l’amore (Francesco) e la sapienza (Domenico). Le parole sono pronunciate da Tommaso d’Aquino, incontrato da Dante in paradiso e sarà proprio lui, domenicano, a tessere l’elogio di Francesco mentre nel canto successivo Bonaventura, francescano, tesserà l’elogio di Domenico.
Francesco verrà descritto come un innamorato con la sua ragazza, la Povertà: nel vortice del loro amore genereranno dei figli, i primi discepoli di Francesco che insieme a lui andranno per il mondo a portare questo amore persino a coloro che erano ritenuti i nemici dei cristiani per eccellenza, cioè i musulmani, a cui Francesco non opporrà le armi ma la parola pacifica del vangelo. La sua vita, ci dice Dante, fu talmente innestata sulle orme di Gesù da diventarne totalmente conforme con i segni della passione. E quando lasciò questo mondo essendosi fatto piccolo piccolo (pusillo) “a’ frati suoi, sì com’a giusta rede, raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede” (Par. XI,112-114). L’unica cosa che chiese ai suoi frati, cioè, che fossero e rimanessero poveri. Questa è la caratteristica principale che accomuna Francesco e Domenico, molto diverso sotto tutti gli aspetti da Francesco, soprattutto per l’Ordine fondato, dedito per lo più alla lotta agli eretici: “Ben parve messo e famigliar di Cristo; che ‘l primo amor che ‘n lui fu manifesto, fu al primo consiglio (cioè la povertà) che diè Cristo” (Par. XII, 73-75).
La simpatia maggiore per Francesco da parte di Dante è mostrata dal fatto che mentre questi incontra disarmato persino i nemici dei cristiani, cioè i musulmani, Domenico fa distinzione tra i fedeli verso cui mostrò grande amore, e gli eretici, verso cui fu inflessibile: “Dentro (a Calaruega) vi nacque l’amoroso drudo della fede cristiana, il santo atleta benigno a’ suoi ed a’ nemici crudo” (Par. XII, 55-57). Francesco e Domenico, secondo Dante, furono simili nella radicalità della sequela di Cristo ma diversi nel modo in cui hanno testimoniato il vangelo: il primo chinato sull’umanità dolente, l’altro preoccupato dell’integrità della fede. Furono contemporanei e vissero per un po’ nello stesso contesto geografico, cioè l’Italia (Domenico morì a Bologna) che non era a quel tempo quell’appendice di interessi economici e politici, come al giorno d’oggi, ma il centro nevralgico del mondo di allora, essendo il luogo dove stava il papa, colui che legittimava ogni potere in terra cristiana. Entrambi hanno sollecitato e fatto interrogare la chiesa nel luogo dove si manifestava la sua forza e la sua arroganza, osando sfidare tutte le devianze da cui era afflitta e che Dante denuncia in tanti modi. Francesco e Domenico non hanno accusato né l’istituzione ecclesiastica né gli uomini che la incarnavano: si sono semplicemente messi in ascolto del vangelo, riformando innanzitutto sé stessi, o meglio, conformando sé stessi a Colui che la chiesa avrebbe dovuto annunciare.
I due elogiatori, Tommaso e Bonaventura, dopo aver descritto le vite eroiche (altro che Marvel!) dei due giganti della fede, daranno un giudizio impietoso sui frati che vennero dopo, ciascuno guardando ai difetti del proprio ordine: Tommaso stigmatizza i domenicani dei quali pochi son rimasti fedeli allo spirito del fondatore: “Ben son di quelle che temono ‘l danno e stringonsi al pastor; ma son sì poche che le cappe fornisce poco panno” (Par. XI, 130-133). Bonaventura striglia i francescani che hanno tradito le origini o per eccesso di rigore o per aver accolto troppi compromessi: “La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi alle sue orme, è tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta … ma non fia da Casal (Ubertino) né d’Acquasparta (Matteo), là onde vegnon tali alla scrittura (regola) ch’uno la fugge e altro la coarta” (Par. XII, 115-117.124-126).
L’insegnamento che ci viene dalla presentazione di questi veri “uomini della provvidenza” e dall’evoluzione che hanno avuto gli ordini da loro fondati può suggerire qualcosa anche per la chiesa di oggi (ma anche per la società civile): innanzitutto le riforme non nascono dall’alto a forza di decreti, motu proprio, encicliche o sinodi in cui si sprecano solo le parole, ma dalla decisione di uomini e donne concreti che per primi hanno incarnato con le proprie scelte i valori che volevano insegnare agli altri, pur non provenendo da luoghi nevralgici del proprio tempo: entrambi nacquero in piccoli centri, lontano dai luoghi di potere. Prima è venuta la loro vita, fatta spesso di fallimenti, incomprensioni e persecuzioni; poi sono venute le parole (la regola), frutto di un’esperienza vissuta in prima persona; la critica agli ordini da loro fondati, fatta da persone vissute poco dopo i fondatori, ci dice inoltre che la pratica del vangelo non è mai una questione risolta una volta per tutte, ma ogni generazione deve fare i conti con la propria coerenza, senza appellarsi, come spesso succede nei movimenti, sia religiosi che civili, a una pretesa “verginità” di diritto dovuta alla grandezza e alla santità del fondatore, che sia Gesù Cristo o Francesco o Antonio Gramsci.
Si potrebbe sintetizzare in questo modo il messaggio di Dante: il vangelo non può essere imposto né dimostrato ma può solo essere proposto ed essere soprattutto mostrato con la propria vita.☺
