Passione, compassione, pietà
13 Ottobre 2023
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Passione, compassione, pietà

La parola “libertà” rimanda a concetti, ad avvenimenti, a scontri, spesso feroci e cruenti, che sono accaduti nel corso dei secoli, e soprattutto ci pone dinanzi a sconvolgimenti sociali, come le rivoluzioni scatenate per ottenere la fine dell’oppressione dal tiranno, l’abbattimento delle diseguaglianze, e fondamentalmente l’ ottenimento delle libertà, collettive e individuali. Fortemente legati al concetto di libertà sono i lessemi “passione”, “compassione”, “pietà”, che ricorrono spesso anche nelle narrazioni letterarie, nelle composizioni artistico/musicali, nelle scritture saggistiche o filosofiche, costituendone probabilmente la parte più fortemente caratterizzante. E questo lo abbiamo potuto constatare anche dalle letture delle opere storiografiche che la stessa Hanna Arendt – su cui ci siamo soffermati in precedenza – molto chiaramente ci rappresenta. Rimanendo nel solco della narrazione storiografica arendiana, “passione” è l’ardore ribelle, giacobino, la tensione alla lotta rivoluzionaria che hanno l’obiettivo di modificare lo status quo delle gravi diseguaglianze sociali, come pure quello di denunciare a chiare lettere i soprusi e le grosse limitazioni imposte da regimi chiaramente autoritari e fortemente illiberali. Riportiamo alcuni pensieri di un grande poeta turco del Novecento – Nazim Hikmet, 1902/1963 – per moltissimi anni rinchiuso nelle galere turche per aver denunciato il regime antidemocratico di Ataturk. In occasione di una conferenza stampa accanto a Neruda e parlando del ruolo dell’intellettuale nella società civile, Hikmet tra le altre riflessioni così si è espresso sul tema della libertà: “Voi parlate in ogni frase di libertà. Voi che venite dal mondo degli schiavi. Voi vorreste insegnare la libertà dei vostri padroni a me che l’ho provata nella carne e nello spirito? Sono stato cacciato dalla mia patria che ho nelle vene cara come il sangue dopo oltre due lustri di galera soltanto perché reo di cantare la libertà nelle mie poesie. Nessuno di noi se vuole essere in pace con se stesso deve fare un mito astratto della libertà. Io l’ho provato; perciò, vi dico che sento come dovere d’uomo dedicare la vita che mi rimane a difendere la libertà e a dire la libertà a chi la vuole sentire e a chi la vuole rifiutare” Davide Lajolo, (Poesia come pane, Rizzoli, 1973).
La “compassione”, poi, implica un rapporto lineare, diretto, talvolta anche profondo con chi soffre e al cui dolore noi compart ecipiamo. Inoltre, la “compassione” si fonda, tra l’altro, sul principio della lotta contro la tirannide, il cui obiettivo è anche il superamento delle diseguaglianze sociali e della povertà endemica, inumana. Ma perché questo obiettivo non si realizza? Per Rousseau e per Robespierre interviene di forza la ragione che pone ostacoli tanto alla “passione”, quanto alla “compassione”. Di qui, verifichiamo che la “ragione” rende l’uomo egoista, ossia impedisce alla Natura di identificarsi con il povero, con l’infelice che soffre.
Infine, c’è la “pietà”, che è il sentimento di profonda, commossa, intensa solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre nel silenzio. L’“amore pietoso” accresce, ravviva le ideologie, i partiti politici, i programmi umanitari. Non mettiamo in dubbio che il ceto politico, la “politica”, come comunemente oggi si dice, voglia eliminare le diseguaglianze sociali e le sofferenze dei ceti subalterni; non c’è dubbio che esprima un trasporto pietoso verso gli ultimi, i sofferenti, verso lo “scarto”. Tuttavia, tale stato emozionale, in ultima analisi, non appare in concreto per niente efficace, perché non ammette che la sofferenza, il dolore, l’emarginazione dolorosa, la povertà debbano necessariamente essere condivise a loro volta… In questo modo le diseguaglianze rimangono ancora più radicate nella società.
A questo proposito la Arendt scrive che: “Per tutto l’ Occidente, a far scuola di rivoluzione restò così soltanto la rivoluzione francese. E fu da essa che i rivoluzionari delle generazioni successive impararono che i motivi originari che avevano ispirato la rivoluzione, cioè – i princìpi di libertà pubblica, felicità pubblica e spirito pubblico – messi a confronto con il movimento reale, con la brutale violenza dei fatti, con le forze nude del bisogno e della necessità, avevano rivelato la loro inconsistenza, erano usciti di scena. (…) La questione sociale era il solo problema vero, alla rivoluzione non doveva interessare altro (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, 199/ 2006/2009).
Su questi temi dobbiamo necessariamente fare un passo indietro nel tempo e andare al XIX secolo, a Fedor Michailovic Dostoevskij (1821/1881), e precisamente al suo ultimo romanzo I fratelli Karamazov (1879/80), al cui interno è bellamente incastrato un breve racconto, che Ivàn espone al fratello Alesha e il cui titolo è La leggenda del grande Inquisitore, che descrive l’incontro fra un Inquisitore del Santo Uffizio e il Cristo. L’Inquisitore accusa Cristo di essere responsabile di aver dotato gli uomini della libertà di scelta tra il bene e il male e di aver alimentato la speranza di una vita migliore dopo la morte. Nella Leggenda del grande Inquisitore Cristo, infatti, è colui che proclama la salvezza dell’uomo, la sua beatitudine dopo la morte, nel Paradiso.
Fermiamoci allora un attimo sulla sinossi, ossia sulla trama del racconto. A Siviglia, negli anni terribili dell’Inquisizione spagnola – fine del XV secolo -, Cristo appare tra la folla, che, riconoscendolo, gli chiede di fare miracoli. E Cristo compie miracoli, fra cui anche quello della ragazza risuscitata (in Marco, 5,41). Quando l’Inquisitore viene a sapere della presenza del Cristo tra la folla plaudente, lo fa arrestare e rinchiudere in una prigione, dove va a trovarlo. Qui, l’inflessibile rappresentante della Chiesa sivigliese (cattolica/spagnola), guardandolo in modo severo, gli dice che è un elemento di disordine e di scandalo. Poi, continuando a rivolgersi al Cristo, lo accusa di far prevedere agli uomini come sia possibile il raggiungimento della felicità, della beatitudine – quella ultraterrena -. Inoltre, lo rimprovera di consentire agli uomini l’uso della libertà, ossia del libero arbitrio, di cui costoro non si servono adeguatamente. Agli uomini, infatti, secondo l’Inquisitore, servono regole che soddisfino la loro necessità di essere felici senza il condizionamento della dottrina romana. Gli comunica anche che sarà condannato al rogo. Alla fine, dopo essere stato sempre in silenzio nell’ascolto delle pesanti accuse che gli rivolge il Grande Inquisitore, al momento del commiato, Cristo gli dà un bacio sulla guancia, facendolo arrossire ed intimidendolo. A questo punto l’Inquisitore fa uscire il Cristo dalla prigione, restituendogli la libertà. Dunque, Cristo è venuto nel mondo per la salvezza spirituale degli uomini; l’Inquisitore ha il compito della guida, della sorveglianza degli uomini, che lui asseconda nelle scelte che costoro decidono di fare (Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi, Einaudi Saggi 950, 2015).☺

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