
La vita come ozio creativo
“…la soave capacità di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria”: ad esprimersi con queste parole non è un artista o magari un animatore per bambini! La citazione riferita è del professor Domenico De Masi, scomparso lo scorso settembre, tratta da uno dei suoi ultimi saggi, La felicità negata (Einaudi).
L’insigne sociologo si è sempre interrogato, nei suoi studi sul tema del lavoro, oltre che sulle cause anche sulle soluzioni da prospettare poiché “non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele”.
Ho richiamato alcune delle idee esposte nel saggio del professor De Masi, pubblicato nel 2022, perché recentemente mi sono imbattuto in un’espressione inglese – sulla quale confesso una mia pregressa ignoranza – che oltre ad incuriosirmi mi ha fornito l’opportunità di documentarmi. Sta diventando sempre più frequente una “disaffezione collettiva” verso il lavoro, resa ancora più pressante negli ultimi anni dalla pandemia e le conseguenti restrizioni imposte dal Covid. Ecco allora che si sente parlare di quiet quitting [pronuncia: quaiet quitting], un atteggiamento facilmente riscontrabile nel mondo del lavoro odierno.
Il termine, che ha avuto origine e una prima diffusione negli Stati Uniti, indicherebbe una visione poco totalizzante dell’ esperienza lavorativa. Traducendola letteralmente l’espressione inglese significa “uscire in silenzio”, con il verbo quit che traduce ‘abbandonare’ o ‘smettere’, e l’aggettivo quiet, ‘tranquillo’ quindi non chiassoso. In netta contrapposizione con la logica capitalistica americana, che vorrebbe le persone dedicare l’intera vita all’occupazione giornaliera, questo fenomeno dell’uscita silenziosa dal mondo del lavoro non intende il licenziamento di massa bensì un atteggiamento di minore coinvolgimento, da parte del/la lavo- ratore/lavoratrice, rispetto a ciò per cui si percepisce un salario; sta emergendo la convinzione che l’impegno di ciascuno debba limitarsi a ciò che è strettamente necessario, senza aggiungere altro in termini di tempo ed emotività.
Questa nuova visione del tempo di lavoro si è venuta delineando anche grazie al cosiddetto smart working, – imposto durante la pandemia – che consentiva a numerosi/e dipendenti di effettuare le proprie mansioni ‘da remoto’ senza essere costretti/e a raggiungere il luogo di lavoro; esso ha contribuito a semplificare la vita dei lavoratori e delle lavoratrici ed ha consentito loro di dedicare maggior tempo ed energie alla propria vita personale e familiare. Come ha osservato recentemente il professor Paolo Naso, “molti giovani percepiscono che il lavoro non sarà più il vettore della loro crescita sociale ed economica. Giusto o sbagliato che sia, è un dato inoppugnabile collocare il lavoro soltanto all’ ottavo posto tra i valori più importanti della propria vita” (Riforma, n. 19/2024).
Sembra fare la propria comparsa quanto da tempo il professor De Masi aveva teorizzato: “L’unione di lavoro con cui produciamo ricchezza, di studio con cui produciamo sapere e di gioco con cui produciamo allegria […] dà origine a quello che possiamo chiamare ozio creativo”. Chi svolge un lavoro di tipo intellettuale o artigianale, non soltanto lavora e crea ricchezza, ma si diverte anche perché ama ciò che fa; ed è proprio in società come l’attuale che l’ozio creativo sprigiona tutta la sua potenza poiché da quando è diventato prevalentemente intellettuale il lavoro si mostra molto più flessibile. Secondo De Masi “purtroppo, con la parola lavoro indichiamo occupazioni diverse. Il minatore lavora, il giornalista lavora. Bisognerebbe utilizzare due parole diverse. Per il lavoro intellettuale si dovrebbe parlare non di lavoro ma di ozio creativo. Non a caso i Romani utilizzavano i termini otium e negotium”.
A scanso di equivoci, con l’espressione anglofona non si intende una volontà indiscriminata di licenziarsi – e poi in questo tempo in cui l’occupazione scarseggia! – bensì un atteggiamento più distaccato: la persona che sceglie il quiet quitting si limita semplicemente a rispettare gli orari di lavoro e le mansioni assegnate, evitando straordinari e/o rifiutando incarichi al di fuori di quanto previsto dal contratto, al fine di non togliere spazio ad altri aspetti della vita personale. E Paolo Naso sottolinea che “a molti giovani oggi il lavoro appare ‘povero’ non solo dal punto di vista economico ma anche da quello dell’ esperienza che produce e dei valori che veicola. Un lavoro stanco, senza entusiasmi né progetti, mero strumento necessario a sopravvivere. Se in passato il lavoro forse occupava troppo spazio della vita di ciascuno, oggi rischia di essere una variabile del tutto secondaria”.
A comprendere meglio il senso di quiet quitting ci aiuta ancora Domenico De Masi: “I lavoratori indefessi, i grandi investitori, quelli che sanno fare i soldi continueranno ad accumulare ricchezza ma quando ci sarà abbondanza per tutti, sapranno goderne solo le persone capaci di sostituire la ‘perizia del lavoro’ con ‘l’arte della vita’ e che rifiuteranno di svendersi in cambio dei mezzi di sopravvivenza”.☺