
Da nessuna parte
“Vivo nella casa in cui sono nato, l’unica che possiedo grazie a mio padre, che è stato più bravo di me a ipotecare il futuro e a fare la sua parte, mentre io sono riuscito a rinnovare e ad ampliare quella degli antenati”. Non credo siano in tanti/e a condividere questa affermazione di Vito Teti, dal suo saggio La restanza. Continuare a vivere nei luoghi d’origine, al giorno d’oggi, è difficile per una serie di ragioni: mancanza di prospettive lavorative – e conosciamo bene il fenomeno nelle aree interne del Molise; desiderio di migliorare la qualità della vita; fuga da situazioni pericolose – e questo riguarda meno noi europei!
Le considerazioni che l’ antropologo ha espresso non sono poi così assurde: l’attaccamento ai luoghi di nascita, la nostalgia, il fascino misterioso dei ricordi, credo appartengano ad ognuno/a di noi, specialmente quando gli anni fanno il loro corso e la vita si trasforma e ci cambia, “perché il sentimento delle origini è inseparabile dal sentimento che abbiamo del nostro presente”. Ed ancora Teti ribadisce che “non possiamo fuggire dalle origini che ci inseguono, saremo sempre anche quello che un tempo siamo stati; quale che sia la pesantezza della condizione, noi restiamo figli dei luoghi e dei tempi in cui siamo nati”.
Per contrasto – e mi vengono in aiuto gli ultimi eventi di cronaca – mi ha colpito la notizia che alle recenti elezioni in Germania “è stato premiato il partito di destra che riesce abilmente a incanalare la rabbia dei nowhere contro gli immigrati, con una retorica razzista che ricorda inevitabilmente il passato più cupo” (Elena Basile, Il Fatto quotidiano, 26/02/2025). Perché, nei confronti di donne e uomini migranti, viene utilizzato questo vocabolo inquietante: nowhere [pronuncia: no-uer]?
Cerco di spiegarmi, innanzitutto sul piano linguistico: secondo la grammatica classica nowhere è un avverbio di luogo composto da no (nessuno/a) e where, che traduce il nostro ‘dove’; in italiano potremmo renderlo con l’espressione ‘da nessuna parte’. L’intransigenza e la violenza contro le persone immigrate, negli ambienti citati sopra ed anche oltreoceano, ovvero nel continente americano, si esprime appunto con l’uso di questo termine quale bandiera ideologica: ‘da nessuna parte’ è la destinazione che si vorrebbe riservare a quanti e quante si mettono in viaggio, correndo rischi elevati nell’abbandonare la propria terra.
E nowhere è ciò che attende, purtroppo molto frequentemente, quegli esseri umani, spesso invisibili ai nostri occhi, che arrivano nei nostri luoghi e che noi trasformiamo in numeri o statistiche, quasi a significare in maniera tangibile la loro esclusione dalla società. Secondo questo modo di pensare non c’è posto per loro: ciò che spetta loro è un ‘non luogo’!
Il termine nowhere potrebbe ricordare a qualcuno una serie televisiva di qualche anno fa: ambientato in un tempo distopico del tutto immaginario, il film racconta di Mia e di suo marito che devono fuggire da un paese totalitario in guerra – e quanti ne conosciamo! Interessante notare che l’ autrice della sceneggiatura della serie ha dichiarato di aver tratto ispirazione dalle esperienze di vita reale degli immigrati.
Restando in campo cinematografico, il premio Oscar 2025 per il miglior documentario è stato assegnato a No other land, letteralmente “nessun’ altra terra”, realizzato da un collettivo di registi israeliani e palestinesi. Quando gli autori hanno ritirato le statuette sul palco di Los Angeles, essi hanno posto l’ accento su ciò che sta ancora avvenendo nei loro luoghi di origine, vale a dire le brutali demolizioni dei villaggi ad opera, congiuntamente, dei coloni e dei soldati israeliani. Ancora ‘da nessuna parte’ è il posto per migliaia e migliaia di persone, secondo il nostro ipocrita modo di pensare occidentale.
Proseguendo la sua riflessione antropologica Vi- to Teti sostiene che “ogni erranza presuppone un ambiente fondativo che è natura e cultura, un legane, un desiderio”: chi migra conserva la sua appartenenza, non si disfa dei propri ricordi, li trasforma in energia positiva. “Dovremmo pensare a una rinnovata dimensione dell’ idea di casa, di domus, che sia inclusiva e dialogica. Immagino una casa i cui muri possano continuare a parlare di me, di noi, a ‘dire’ una storia, ma la immagino con le porte sempre aperte. Dalla nostra disponibilità all’accoglienza ormai dipende non solo il futuro, ma anche la partita, altrettanto importante, della salvezza della nostra memoria”.
Vivere, frequentare, respirare luo- ghi che diventano cari: ciascuno/a dovrebbe poter scegliere di restare o di spostarsi, senza alcuna restrizione o imposizione. “Avere conoscenza della propria storia, ma anche della propria ombra, della propria nostalgia per non rifiutare quella degli altri, per riconoscere la loro diversità e la loro ricchezza. Camminare, viaggiare, restare: esserci ed essere insieme, sempre qui, sempre ‘dentro il luogo’”.☺