
Le rane
Correvano per creare distanze. Con un affanno che, come un velo, avvolgeva la stanchezza. Ore interminabili, durante le quali le forme, intorno, si erano sbiadite, i suoni attutiti dalla concitazione della corsa, i pensieri dispersi dalla paura.
Enrico aveva le ali ai piedi. Stefano arrancava. Erano fuggiti dalla violenza, dal fuoco che riduceva in cenere la loro casa povera, dal fumo che li accecava ed evaporava con i sogni… Fuggivano dall’unico luogo conosciuto.
Stefano ogni tanto tossiva. Scomponeva completamente il suo corpo, adattandolo a una corsa stramba, pesante, che comunque lo aiutava ad allontanarsi. Respirava a fatica, con un rantolo sordo aggrappato alla gola, in un vortice insidioso che, a sua volta, si aggrappava alla vita con gli artigli affilati d’un rapace, in un groviglio di immagini sublimate dalla tristezza. Non si fermavano mai. Né guardavano indietro. Correvano. E corsero finché il buio li avvolse. Finché, in un anfratto del bosco, si imbatterono in una vecchia baracca, rifugio di ladri e bracconieri.
Enrico spinse la porta lentamente, mentre il fiato sospendeva la sua corsa. Entrarono. Il buio li esponeva e li proteggeva. Si fermarono uno di fronte all’altro e per la prima volta, dalla notte precedente, si guardarono. Per la prima volta si abbracciarono. Asmatici. Tristemente soli. Si strinsero a lungo, sincronizzando i cuori che continuavano a galoppare. Respirarono all’unisono. Poi si destarono, cercarono ceppi e sterpaglie e con l’acciarino che Stefano teneva sempre con sé, persino nel letto, accesero un timido fuoco. Enrico si guardava intorno in cerca di nulla. Semplicemente guardava e pensava che quelle povertà, in quel momento, erano ricchezza. La fatiscenza impreziosiva la precarietà e diventava certezza.
Fuori la bora ululava. Il fuoco scoppiettava a fatica. Avevano fame. Enrico decise di uscire. Gironzolò intorno alla baracca tra i nevischi che cominciavano a cadere. Poco distante si sentiva scorrere un ruscello, allora si tolse il cappello e corse ancora, fino al greto, e, coi pensieri, fino allo stagno che lambiva la loro piccola casa. Lo stagno in cui usavano fare il bagno insieme alle rane, dove prendevano i muschi, le tenere alghe, per tingersi il viso e le mani. Come le rane.
Enrico raccolse l’acqua e tornò dal fratello. Bevvero insieme. L’acqua bastò anche per sciacquarsi il viso. Si guardarono ancora. In silenzio. Senza comunicarsi la disperazione che grondava dai pori. Neanche le paure. Scelsero un angolo asciutto, si distesero, uno accanto all’altro, e cercarono di dormire. E sognarono, insieme, l’unico sogno possibile. Ambedue seduti sulle nuvole. Sognarono un sogno semplice, a portata di cuore. Bastante per lenire le ferite. Insieme. Per mano. Con il padre e la madre. Lungo un cielo luminoso. Divincolandosi dalle brutture subìte. Salvaguardando quel poco di bellezza capace di mischiare i sensi. E rimasero seduti a lungo sopra nuvole di miele e bile sfumate in un verde tumefatto. E saltarono da un ricordo all’altro, da un abbraccio all’altro, come le rane, mentre i genitori sorridevano e svanivano, e ricomparivano con diverse sembianze.
Stefano iniziò a tossire. Prima in sordina, poi sempre più forte, premendosi il petto. Il cuore gli batteva come quando fuggivano. Enrico corse ancora al ruscello. L’acqua calmò l’arsura. Intorno, come una melodia, il giorno nasceva insieme alla bora. Per un attimo sembrò che tutto il mondo potesse fare un passo indietro, un giorno indietro, perché ogni cosa si ricostituisse nella semplice normalità che mancava. Ogni attimo potesse ricomporsi senza lacrime, senza devastazioni irreversibili, ogni respiro potesse amalgamarsi con le nuvole.
La luce sembrò oltrepassare il bosco e le distanze. Stefano tossiva piegato su se stesso. Enrico si contorse come un giunco e cadde al suolo. Per tre volte un tormento convulsivo parve invocare il sogno e la speranza, poi, come quando scappavano, un velo di cera calò sul suo giovane viso. Stefano corse al ruscello e prese altra acqua. Mentre tornava, vide una pozzanghera piena di muschi maceri, allora si fermò, raccolse quanto ne entrava nella sua piccola mano, tornò nella baracca e, silenziosamente, si sedette accanto al corpo esanime del fratello. Lentamente si poggiò la testa in grembo, si raccolse in un lungo, sconsolato respiro, poi, cantilenando una vecchia nenia, iniziò a cospargere di terra quel viso amato che conservava un labile sorriso. Lo coprì con cura, finché ogni angolo di pelle divenne verde come le rane dello stagno.
La tosse riprese a scalfire il petto, mentre il giorno si perdeva tra le fronde. Stefano si distese. Lentamente ripose l’acciarino nella mano di Enrico, gli si accostò, come a volerlo proteggere, e insieme si prepararono, ripetendo il gioco che spesso avevano fatto sulle rive del loro stagno. Si prepararono a saltare. Questa volta nel buio profondo della notte. Insieme. In silenzio. Leggeri. Proprio come le rane.☺