
Il doppio uso
Credo che ognuno/a di noi sia molto accorto/a nei propri acquisti. “E ci mancherebbe – potreste aggiungere – coi tempi che corrono!”. Tranquilli! Non ho intenzione di prodigarmi in consigli riguardo a cosa sia più o meno conveniente comprare, oppure a come spendere il denaro nella maniera più giusta – non ne sarei neanche capace! -; riflettevo sul fatto che tutti e tutte proiettiamo nel tempo quello che acquistiamo, valutando se, per esempio, un elettrodomestico sia in grado di durare abbastanza, se la scelta di un bene possa dimostrarsi vantaggiosa per tutta la famiglia, se un capo d’abbigliamento saprà essere sfruttato per più di una stagione.
A proposito di abiti, double face [pronuncia: dubl fas] è un’espressione francese – identica in inglese anche se pronunciata in modo diverso – che definisce un tessuto e di conseguenza un vestito che può avere due aspetti differenti ma ugualmente validi e gradevoli alla vista, offrendo a chi lo indossa la possibilità di cambiare la propria immagine e magari l’abbinamento dei colori. Nel linguaggio pubblicitario odierno ‘un abito al posto – e costo – di due’!
La riflessione che intendo offrire si riallaccia a quanto premesso e prende le mosse da una versione ‘aggiornata’ del double face; si tratta di un termine inglese, il dual use, di cui oggigiorno si sta discutendo ampiamente.
“Sono ossessionato dal dual use. Per tutta la vita ho sempre evitato di trovarmici in mezzo, di dovere venire a patti con questo cinismo delle aziende. Ma adesso realizzo che ogni invenzione tecnica è dual use. Così, adesso, se creo un motore o un razzo per lo spazio, Dio solo sa se verrà usato per uccidere qualcuno”.
Queste amare considerazioni aprono un’intervista a Louay Elbasyouni, ingegnere spaziale e astronauta con tripla cittadinanza – tedesca, palestinese e statunitense – proveniente dalla realtà ‘martoriata’ di Gaza. “Ho sempre fermamente creduto che la tecnologia possa contribuire a risanare il rapporto dell’umanità con l’ambiente, se non i suoi conflitti interni, ma adesso mi devo ricredere: i governi mondiali sono pieni di ipocriti” (Il fatto quotidiano, 7 luglio 2025).
Dual use, ‘doppio uso’ in italiano, non è certamente un’espressione neutra: l’uso ‘raddoppiato’ cui fa riferimento è relativo soprattutto a strumenti, invenzioni, applicazioni che si rivelano utili sia in campo civile che in quello militare. Conosciamo tutti il grande dibattito sull’energia nucleare che sin dagli esordi si è portato dietro il dilemma se il suo uso fosse lecito anche in guerra. E – ahinoi – dopo il lancio delle bombe atomiche sulle città di Hiroshima e Nagasaki, la corsa agli armamenti è avanzata enormemente con la progettazione e fabbricazione di testate nucleari sempre più pericolose e distruttive.
Quanto avviene nel settore della tecnologia – come ci ricordava l’ingegnere Elbasyouni – rispecchia in pieno lo spirito del nostro contemporaneo. E non rappresenterebbe neanche una novità: l’industrializzazione, che ha modificato il quadro della società occidentale dal secolo XVIII in avanti, è sorta da premesse simili; la realizzazione di beni e prodotti, creati per fornire agevolazioni e facilitazioni alla vita delle persone, si affianca all’inseguimento di guadagni e arricchimento. E il bilanciamento tra profitti e perdite, con attenzione massima ai primi, rappresenta l’obiettivo principale di qualsiasi azienda.
Al di là del fattore convenienza, sia economica che di tempo, il più delle volte la pratica del dual use può lasciare spazio a situazioni ed eventi la cui autenticità e il cui valore suscitano seri dubbi. Anche azioni ritenute pubblicamente pregevoli, quali il rimboschimento e la messa a dimora di alberi, a volte, possono nascondere un secondo fine, assai discutibile.
“Le decine di milioni di alberi, molto spesso pini, piantate dal JNF [Fondo Nazionale Ebraico] sono servite a coprire ciò che la questione israelo-palestinese ha prodotto, in particolare dal 1948 in poi: i villaggi palestinesi sono, infatti, nascosti alla vista attraverso una costruzione del paesaggio che copre i muri delle case distrutte attraverso una nuova vegetazione” (Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme). Lo scopo non dichiarato corrisponde al tentativo di “cancellare dalla memoria i villaggi spopolati e prevenire il ritorno dei rifugiati palestinesi”.
Ciò che contraddistingue il dual use, anche quando non direttamente applicato in ambito militare o bellico, è la ricerca di un vantaggio, l’impegno per procurare opportunità, lo sforzo di mantenere condizioni di benessere. L’aspetto negativo però concerne i destinatari di tale pratica: non la società nel suo complesso bensì una ristretta cerchia di persone che intendono conservare i privilegi acquisiti senza alcun riguardo verso ciò che accade intorno.
La cura ed il rispetto per l’ambiente – per restare nell’ambito citato da Paola Caridi – devono rappresentare l’obiettivo principale dell’azione e dell’impegno di tutti/e, non la risultante di un’astuta operazione per il raggiungimento di secondi fini, che è la logica che sorregge il dual use. Alquanto lontana appare l’immagine del double face – tessuto o abito che sia: essa comunica versatilità, intercambiabilità, scelta, gioia negli accostamenti e non secondi e oscuri fini. L’obiettivo non è il superguadagno, non è la supremazia, non è l’affermazione di una cultura di morte!
Smascheriamo allora – con Louay Elbasyouni – l’ipocrisia dei “governi mondiali”.☺