a basso costo
20 Febbraio 2010 Share

a basso costo

“Una cosa sola è motivo di vergogna per gli schiavi: il nome. Per il resto nessuno schiavo è inferiore ad un altro uomo, neanche se questi è libero. La differenza si basa sull’onestà”.

Così Euripide, nel V secolo a. C., dichiarava l’inaccettabilità della condizione schiavile per qualsiasi uomo, negando l’inferiorità o la superiorità tra gli esseri umani.

È stata abolita la schiavitù? Sembrerebbe di no, se si considerano gli ultimi episodi avvenuti a Rosarno.

A dispetto di tutte le leggi che la mettono al bando, la schiavitù esiste ancora; dietro la situazione di sfruttamento che essa comporta sta soprattutto la domanda di manodopera dei paesi sviluppati, tra cui l’Italia, dove le trasformazioni socioeconomiche in atto, e ultimamente il concorso della criminalità organizzata, determinano una richiesta di manodopera a basso costo, ad alto livello di ricattabilità ed elevata flessibilità. Coloro che maggiormente rispondono a queste richieste sono soprattutto gli immigrati.

Molti laureati e diplomati del Sud del mondo accettano di svolgere, nelle nostre città, attività manuali che nella loro patria disdegnerebbero. Li ritroviamo dediti al facchinaggio o alla macellazione, nelle miniere o nelle concerie. Il loro lavoro, se irregolare, si inserisce organicamente nel quadro di quell’economia che viene eufemisticamente definita “sommersa”.

Non avendo alternative, non potendo competere con gli autoctoni sul mercato regolare del lavoro, gli immigrati sono costretti ad accettare condizioni di lavoro, ritmi e orari ormai improponibili per la manodopera locale. Il loro obiettivo prevede di realizzare il maggior risparmio nel minor tempo possibile e per ottenerlo sono disposti a rinunciare al tempo libero, poiché vivono lontano dalla propria famiglia, in un ambiente per molti aspetti estraneo, se non ostile, e in una situazione percepita come provvisoria.

Sono i nuovi dannati della terra, al fianco dei quali si schiera Alessandro Leogrande quando dice: “La nostra generazione (diciamo quelli nati negli anni Settanta del secolo scorso) fa fatica a riconoscere i reietti, l’esistenza di un’umanità derelitta. Fa fatica a comprendere che ai margini di un corpaccione sociale che sembra asetticamente compatto, c’è un altro mondo. Ci sono uomini e donne che si rotolano nella polvere per raccogliere un pomodoro o strappare una patata, uomini e donne per cui sei, sette, dieci euro sono una somma che ha il potere di dividere la vita dalla morte. E che a sera, santamente, raccolgono e contano uno sull’altro quei pochi spiccioli, dicendosi vivi. La nostra generazione fa fatica a capire tutto questo. Ma questa umanità che vive ai margini esiste”.

Quando negli anni ’60 Marshall McLuhan coniò la definizione di “villaggio globale” essa sembrava soltanto una metafora seducente. Oggi quella stessa metafora è l’espressione di una realtà oggettiva in atto sul pianeta Terra: il mercato del lavoro, divenuto globale, coinvolge la manodopera a basso costo dei paesi meno sviluppati, molto più appetibile di quella dei lavoratori occidentali.

Gli schiavi odierni vivono nelle nostre città pur non facendone parte. È consentito loro di produrre, non di capire. Perché oggi è l’economia monetaria, che dà un valore ad ogni merce, a considerare merce anche l’uomo. È ancora Leogrande a suggerirci che “ai margini dell’economia globalizzata sorgono dicotomie che solo con difficoltà riusciamo ad afferrare. Sono fratture che riguardano il mondo delle emigrazioni, di quelle vecchie e di quelle nuove, di quelle provenienti ora dall’Europa, ora dall’Afri- ca, ora dall’Asia, ora dai paesi neocomunitari ora da paesi extracomunitari. La linea del fronte non contrapporrà comunità a comunità, etnia a etnia. Ma le attraverserà tutte spaccandole in due come mele. Nuovi cafoni da una parte, nuovi bravi dall’altra; mentre altri, nuovissimi signori dei feudi, stabiliranno la posta in gioco”. ☺

annama.mastropietro@tiscali.it

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