C’è stato un tempo in cui le regole del vivere non erano basate su tavole della legge dettate dall’esterno; non esisteva, allora, il divieto, bensì modelli di comportamento la cui forza propositiva era tale da richiedere l’adesione incondizionata ad essi, pena l’esclusione dalla comunità. A giudicare la liceità dell’agire del singolo o del gruppo era infatti l’intera collettività. Il mondo preomerico, e la tradizione orale che ad esso fa da sfondo, è testimone di questo modo di intendere i rapporti sociali.
Figure d’eroi inossidabili hanno attraversato il tempo, hanno appassionato le generazioni di ogni latitudine, riscuotono tuttora successo e simpatia anche nei lettori meno scaltri, stimolano la creatività dei registi moderni: possenti, perché in ciascuno di loro il privato, la storia personale, il sentimento si fonde con il pubblico, la storia collettiva, il senso del dovere. Non c’è scissione, non c’è schizofrenia, è la vita che fluisce e dà corso alle azioni; è l’immediato sentire che fa assumere all’uomo e alla donna quei comportamenti capaci di far guadagnare loro la pubblica stima. Le personalità e i caratteri non sono artefatti: Andromaca in pena per la sorte di Ettore assomiglia alle donne di tutti i tempi, naturalmente in ansia per la sorte del compagno in guerra; Paride pazzo d’amore per Elena non ha nulla da invidiare agli amanti di oggi; Achille e Patroclo sono l’emblema di un’amicizia che la società d’allora non condannava.
Questi ultimi si ritrovano coinvolti nell’occupazione da sempre prediletta dagli uomini: la guerra. Non possono sottrarsi ad essa né alla richiesta d’aiuto di Menelao cui è stata rapita la bella Elena dal principe troiano Paride. Era in voga anche allora camuffare con falsi pretesti la volontà di portare le armi contro altri popoli per occupare zone economicamente nevralgiche, fulcro di traffici e di commerci: nihil novi sub soli! (niente di nuovo sotto il sole, per dirla con Qoelet).
Ma Achille è colto da un improvviso ripensamento e dice no alla guerra. E’ il torto subìto ad opera di Agamennone, colpevole di avergli sottratto la schiava Briseide, che fa scattare nell’eroe la rinuncia a combattere contro i Troiani e a sfidare il giudizio negativo della collettività o il desiderio di sperimentare una dimensione esistenziale nuova? Si sente forse Achille prigioniero di un’identità costruitagli da altri o teme la fine imminente?
Patroclo al contrario reca con sé la forza irruente della gioventù, l’entusiasmo incauto dell’inesperienza, ma anche la determinazione a raggiungere la gloria e a guadagnare trofei; vive la guerra come la sua grande occasione.
Ed ecco presentarsi il momento propizio: l’assenza di Achille dal campo di battaglia fa sì che Patroclo decida di incontrare se stesso, provi finalmente a sperimentare quanto vale in assenza della forza soverchiante del compagno. L’amore, la premura, il presentimento della morte sono tutti presenti nel commiato tra i due eroi. Achille non vuole che Patroclo si esponga troppo, gli presta le sue armi come ultima propiziatoria difesa. E con le armi dell’amico il figlio di Menezio va incontro alla gloria. E’ veramente Patroclo che combatte? Il sentimento che lega i due eroi, pur distanti, è tale che i corpi sembrano fondersi in uno solo, quasi che l’armatura diventi l’epidermide, il rivestimento di entrambi. Patroclo si lancia contro Ettore, il più forte dei Troiani, lotta per la gloria sua e dell’esercito che rappresenta nonché per onorare l’amico di cui indossa le armi. Ma quando nel duello soccombe, lo strazio di Achille appare spropositato, se si considera quanto, da guerriero qual era, fosse innegabilmente avvezzo a veder morire in guerra nemici e amici.
I due personaggi recano senza dubbio con sé un vissuto cui non intendono rinunciare; dal momento in cui Eros ha scagliato contro di loro le sue frecce hanno vissuto incolpevoli la loro storia d’amore. Ed Eros, com’è noto, non conosce limiti.
La cultura occidentale, che dei miti si è nutrita, è oggi attraversata dall’ansia di ricostituire identità chiuse e perfette, che delimitino entro confini certi le persone e i loro desideri. Identità monolitiche che disdegnano la pluralità, anche nel mondo classico: c’è chi, infatti, come Wolfgang Petersen, il regista del colossal americano “Troy”, ha preferito camuffare il sentimento che lega i due eroi giustificandolo con un rapporto di parentela. Entrambi infatti si scambiano nel film l’appellativo di cugino.
Un velo d’ipocrisia ha celato per millenni quello che l’epos ha concesso ad Achille e Patroclo: varcare le soglie del tempo ed essere ricordati e cantati per generazioni dal mito, che racconta la vita sfidando chi addita e pone divieti. ☺
C’è stato un tempo in cui le regole del vivere non erano basate su tavole della legge dettate dall’esterno; non esisteva, allora, il divieto, bensì modelli di comportamento la cui forza propositiva era tale da richiedere l’adesione incondizionata ad essi, pena l’esclusione dalla comunità. A giudicare la liceità dell’agire del singolo o del gruppo era infatti l’intera collettività. Il mondo preomerico, e la tradizione orale che ad esso fa da sfondo, è testimone di questo modo di intendere i rapporti sociali.
Figure d’eroi inossidabili hanno attraversato il tempo, hanno appassionato le generazioni di ogni latitudine, riscuotono tuttora successo e simpatia anche nei lettori meno scaltri, stimolano la creatività dei registi moderni: possenti, perché in ciascuno di loro il privato, la storia personale, il sentimento si fonde con il pubblico, la storia collettiva, il senso del dovere. Non c’è scissione, non c’è schizofrenia, è la vita che fluisce e dà corso alle azioni; è l’immediato sentire che fa assumere all’uomo e alla donna quei comportamenti capaci di far guadagnare loro la pubblica stima. Le personalità e i caratteri non sono artefatti: Andromaca in pena per la sorte di Ettore assomiglia alle donne di tutti i tempi, naturalmente in ansia per la sorte del compagno in guerra; Paride pazzo d’amore per Elena non ha nulla da invidiare agli amanti di oggi; Achille e Patroclo sono l’emblema di un’amicizia che la società d’allora non condannava.
Questi ultimi si ritrovano coinvolti nell’occupazione da sempre prediletta dagli uomini: la guerra. Non possono sottrarsi ad essa né alla richiesta d’aiuto di Menelao cui è stata rapita la bella Elena dal principe troiano Paride. Era in voga anche allora camuffare con falsi pretesti la volontà di portare le armi contro altri popoli per occupare zone economicamente nevralgiche, fulcro di traffici e di commerci: nihil novi sub soli! (niente di nuovo sotto il sole, per dirla con Qoelet).
Ma Achille è colto da un improvviso ripensamento e dice no alla guerra. E’ il torto subìto ad opera di Agamennone, colpevole di avergli sottratto la schiava Briseide, che fa scattare nell’eroe la rinuncia a combattere contro i Troiani e a sfidare il giudizio negativo della collettività o il desiderio di sperimentare una dimensione esistenziale nuova? Si sente forse Achille prigioniero di un’identità costruitagli da altri o teme la fine imminente?
Patroclo al contrario reca con sé la forza irruente della gioventù, l’entusiasmo incauto dell’inesperienza, ma anche la determinazione a raggiungere la gloria e a guadagnare trofei; vive la guerra come la sua grande occasione.
Ed ecco presentarsi il momento propizio: l’assenza di Achille dal campo di battaglia fa sì che Patroclo decida di incontrare se stesso, provi finalmente a sperimentare quanto vale in assenza della forza soverchiante del compagno. L’amore, la premura, il presentimento della morte sono tutti presenti nel commiato tra i due eroi. Achille non vuole che Patroclo si esponga troppo, gli presta le sue armi come ultima propiziatoria difesa. E con le armi dell’amico il figlio di Menezio va incontro alla gloria. E’ veramente Patroclo che combatte? Il sentimento che lega i due eroi, pur distanti, è tale che i corpi sembrano fondersi in uno solo, quasi che l’armatura diventi l’epidermide, il rivestimento di entrambi. Patroclo si lancia contro Ettore, il più forte dei Troiani, lotta per la gloria sua e dell’esercito che rappresenta nonché per onorare l’amico di cui indossa le armi. Ma quando nel duello soccombe, lo strazio di Achille appare spropositato, se si considera quanto, da guerriero qual era, fosse innegabilmente avvezzo a veder morire in guerra nemici e amici.
I due personaggi recano senza dubbio con sé un vissuto cui non intendono rinunciare; dal momento in cui Eros ha scagliato contro di loro le sue frecce hanno vissuto incolpevoli la loro storia d’amore. Ed Eros, com’è noto, non conosce limiti.
La cultura occidentale, che dei miti si è nutrita, è oggi attraversata dall’ansia di ricostituire identità chiuse e perfette, che delimitino entro confini certi le persone e i loro desideri. Identità monolitiche che disdegnano la pluralità, anche nel mondo classico: c’è chi, infatti, come Wolfgang Petersen, il regista del colossal americano “Troy”, ha preferito camuffare il sentimento che lega i due eroi giustificandolo con un rapporto di parentela. Entrambi infatti si scambiano nel film l’appellativo di cugino.
Un velo d’ipocrisia ha celato per millenni quello che l’epos ha concesso ad Achille e Patroclo: varcare le soglie del tempo ed essere ricordati e cantati per generazioni dal mito, che racconta la vita sfidando chi addita e pone divieti. ☺
C’è stato un tempo in cui le regole del vivere non erano basate su tavole della legge dettate dall’esterno; non esisteva, allora, il divieto, bensì modelli di comportamento la cui forza propositiva era tale da richiedere l’adesione incondizionata ad essi, pena l’esclusione dalla comunità. A giudicare la liceità dell’agire del singolo o del gruppo era infatti l’intera collettività. Il mondo preomerico, e la tradizione orale che ad esso fa da sfondo, è testimone di questo modo di intendere i rapporti sociali.
Figure d’eroi inossidabili hanno attraversato il tempo, hanno appassionato le generazioni di ogni latitudine, riscuotono tuttora successo e simpatia anche nei lettori meno scaltri, stimolano la creatività dei registi moderni: possenti, perché in ciascuno di loro il privato, la storia personale, il sentimento si fonde con il pubblico, la storia collettiva, il senso del dovere. Non c’è scissione, non c’è schizofrenia, è la vita che fluisce e dà corso alle azioni; è l’immediato sentire che fa assumere all’uomo e alla donna quei comportamenti capaci di far guadagnare loro la pubblica stima. Le personalità e i caratteri non sono artefatti: Andromaca in pena per la sorte di Ettore assomiglia alle donne di tutti i tempi, naturalmente in ansia per la sorte del compagno in guerra; Paride pazzo d’amore per Elena non ha nulla da invidiare agli amanti di oggi; Achille e Patroclo sono l’emblema di un’amicizia che la società d’allora non condannava.
Questi ultimi si ritrovano coinvolti nell’occupazione da sempre prediletta dagli uomini: la guerra. Non possono sottrarsi ad essa né alla richiesta d’aiuto di Menelao cui è stata rapita la bella Elena dal principe troiano Paride. Era in voga anche allora camuffare con falsi pretesti la volontà di portare le armi contro altri popoli per occupare zone economicamente nevralgiche, fulcro di traffici e di commerci: nihil novi sub soli! (niente di nuovo sotto il sole, per dirla con Qoelet).
Ma Achille è colto da un improvviso ripensamento e dice no alla guerra. E’ il torto subìto ad opera di Agamennone, colpevole di avergli sottratto la schiava Briseide, che fa scattare nell’eroe la rinuncia a combattere contro i Troiani e a sfidare il giudizio negativo della collettività o il desiderio di sperimentare una dimensione esistenziale nuova? Si sente forse Achille prigioniero di un’identità costruitagli da altri o teme la fine imminente?
Patroclo al contrario reca con sé la forza irruente della gioventù, l’entusiasmo incauto dell’inesperienza, ma anche la determinazione a raggiungere la gloria e a guadagnare trofei; vive la guerra come la sua grande occasione.
Ed ecco presentarsi il momento propizio: l’assenza di Achille dal campo di battaglia fa sì che Patroclo decida di incontrare se stesso, provi finalmente a sperimentare quanto vale in assenza della forza soverchiante del compagno. L’amore, la premura, il presentimento della morte sono tutti presenti nel commiato tra i due eroi. Achille non vuole che Patroclo si esponga troppo, gli presta le sue armi come ultima propiziatoria difesa. E con le armi dell’amico il figlio di Menezio va incontro alla gloria. E’ veramente Patroclo che combatte? Il sentimento che lega i due eroi, pur distanti, è tale che i corpi sembrano fondersi in uno solo, quasi che l’armatura diventi l’epidermide, il rivestimento di entrambi. Patroclo si lancia contro Ettore, il più forte dei Troiani, lotta per la gloria sua e dell’esercito che rappresenta nonché per onorare l’amico di cui indossa le armi. Ma quando nel duello soccombe, lo strazio di Achille appare spropositato, se si considera quanto, da guerriero qual era, fosse innegabilmente avvezzo a veder morire in guerra nemici e amici.
I due personaggi recano senza dubbio con sé un vissuto cui non intendono rinunciare; dal momento in cui Eros ha scagliato contro di loro le sue frecce hanno vissuto incolpevoli la loro storia d’amore. Ed Eros, com’è noto, non conosce limiti.
La cultura occidentale, che dei miti si è nutrita, è oggi attraversata dall’ansia di ricostituire identità chiuse e perfette, che delimitino entro confini certi le persone e i loro desideri. Identità monolitiche che disdegnano la pluralità, anche nel mondo classico: c’è chi, infatti, come Wolfgang Petersen, il regista del colossal americano “Troy”, ha preferito camuffare il sentimento che lega i due eroi giustificandolo con un rapporto di parentela. Entrambi infatti si scambiano nel film l’appellativo di cugino.
Un velo d’ipocrisia ha celato per millenni quello che l’epos ha concesso ad Achille e Patroclo: varcare le soglie del tempo ed essere ricordati e cantati per generazioni dal mito, che racconta la vita sfidando chi addita e pone divieti. ☺
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