armida miserere: la difficile scelta  a cura di Antonio Di Lalla
1 Dicembre 2013 Share

armida miserere: la difficile scelta a cura di Antonio Di Lalla

Parma 5.4.84
Antonio carissimo,
è una giornata triste, forse solo perché piovosa, forse solo perché avrei voglia di parlare con qualcuno. Mi sento un po’ sola, mentre fino a ieri respiravo un’aria finissima, che aveva i colori dell’entusiasmo e della libertà. Fondamentalmente, tutto è rimasto invariato, anche se oggi è stata una giornata “oscura”, forse solo all’insegna del nervosismo. Ora va meglio.
Alle 19 andrò in palestra e poi fuori a trovare alcuni compagni di lavoro con i quali credo valga la pena tentare di costruire un rapporto.
Sono a casa ad ascoltare Beethoven, e forse ti stai chiedendo dove voglia arrivare, forse solo a parlare un po’ di me, di ciò che sono, di ciò che vivo, di come mi senta “intera” eppure affettivamente demotivata, distante da Casacalenda, da Roma, da tutto quanto abbia a che fare con il passato recente o remoto. Può darsi che io mi stia barricando, può darsi mi stia difendendo da tutto quanto mi ha causato dolore. Ero caduta in un pesante torpore: non solo ero demotivata affettivamente, ma, molto più tragico, non riuscivo a vedere oltre lo squallore che mi circondava. Ho riacquistato il coraggio di guardare avanti e intanto ho cercato di dare senso al mio studio, al mio lavoro. Da questo punto di vista sono soddisfatta, con un entusiasmo che ormai credevo di aver perduto ho ripreso i contatti con l’università, con gli studenti, con la scuola di specializzazione. Sono stata ad un incontro a Bologna fra direttori e segretariato di Martinazzoli. Ho conosciuto gente nuova che mi ha dato della politica una visione umana, un quadro, all’interno del quale muoversi, accettabile. Parma mi ha dato molto, mi ha offerto innumerevoli spazi e, per il momento, non intendo abbandonarla. Io, nomade, irrequieta, sempre in cerca del “centro”, sto dicendo a me stessa che ho intenzione di fermarmi. Per ora, fermarmi a Parma. E non è tutto. Il carcere è un mondo a parte, ricco di attività fortemente sociali: può essere una tomba per sepolti vivi, oppure può vivere, palpitare, muoversi e rinnovarsi; dipende dal direttore dargli un’impronta vitale. Un direttore titolare deve essere reperibile 24 ore su 24, deve essere il direttore sempre. Per un direttore uomo, stante certa cultura, è facile, non si pone il problema della “casa”, degli affetti; la moglie segue il marito, oppure svolge una attività che le consenta la vita privata. Eterno problema. Un direttore donna sceglie di essere un direttore oppure una donna. Essere un direttore significa vivere obbligatoriamente all’interno, essere presente in istituto sempre, ritirarsi in casa a tarda sera o comparire di notte per una ispezione.
Non sto esagerando Antonio e quanto ho scritto è solo una minima parte di ciò che già vivo. Alla fine di luglio scadranno i 6 mesi di prova, ed il ministero deciderà della mia vita, forse. Qualche giorno fa l’ispettore distrettuale è venuto ad ispezionare i nostri istituti. Ha parlato un po’ con me. (Tra l’altro già lo conoscevo, lo incontravo spesso a San Vittore). Mi ha chiesto cosa intendessi fare, istintivamente ho risposto “il direttore”. E lui mi ha detto che avevo due possibilità: fare il vicedirettore a vita, probabilmente frustrata dal punto di vista professionale, realizzata dal punto di vista umano. Oppure potevo essere un direttore, certo rinunciando agli affetti più pregnanti della mia vita privata. Ho concluso dicendo che certo avrei scelto la titolarità di un istituto, non avrei studiato tanto, non sarei un criminologo, non sarei stato tanto al lavoro. Comunque avrò tempo fino a luglio per risolvere i miei eventuali conflitti.
Se di scelta si tratta oggi la sento distante, sento il mio impegno, il mio coraggio, sono restia a coinvolgere altri nei rischi della mia vita. Ho molto lottato per arrivare dove sono arrivata. Mi sento intera proprio perché posso continuare a studiare, a ricercare, ad essere cioè un criminologo. Ed in questo entusiasmo per i miei studi, le scoperte, i contributi tangibili alla vita sociale, tutto quanto è accaduto e forse ancora accade mi si manifesta estraneo, privo di significato, mentre significativa è Casacalenda avulsa dalla sua gente, significativa la mia casa in quel paese, e di entrambi provo nostalgia e tenerezza. Sento che non mi interessa trovare il “capo di quel filo”, sento che non mi interessa chiarire, spiegare, giustificare. Il tutto è troppo diverso da me, troppo lontano. È come se fossi troppo distante anche da …, è solo una sensazione, ma è come se gli rimproverassi qualcosa, ancora oscuro, forse sono io a non essere in grado di amare e offrire. Sì, forse è così, il mio amore è troppo intellettuale e vive benissimo nell’assenza, mentre l’amore è fatto di offerte, di presenze, di quotidiano. Probabilmente ho terrore di essere “incastrata”, imbavagliata, o forse è solo paura di perdere ciò che amo così, in partenza rinuncio ad amare, ad avere, offrirmi è sempre pericoloso, forse ho paura di soffrire ancora perché sono stanca di soffrire, di essere delusa o amareggiata. Mi sento intellettualmente sola, spesso anche con … anche se non riuscirò a dirglielo.
… mi ama molto, anche … mi amava molto e mi ama molto. Forse non ho saputo amarlo come non riesco ad amare … Forse è meglio che mi interrompa qui.
Il bianco del foglio è come se fosse colmo di pensieri che certo intuisci senza necessità di essere trascritti.
Ti abbraccio. A presto.

 

La decisione di rendere pubblica questa lettera che risale al 1984 è dovuta al fatto che può essere un utile contributo per una più proficua e profonda comprensione del film come il vento. Il dramma vissuto e raccontato della non semplice scelta tra lavoro e sentimenti o del come interpretare il lavoro ci restituiscono una Armida vera, reale, che finirà per soccombere nel tragico epilogo di quel venerdì santo del 2003 quando pose la mano su di se.
Antonio Di Lalla

 

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