Cantore dell’amore
8 Luglio 2023
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Cantore dell’amore

Giungendo alla fine di un bel percorso all’interno dell’opera maggiore di Dante, mi piacerebbe guardare a volo d’uccello l’intera Commedia, partendo dagli incipit e dai versi finali delle tre cantiche per poi fermarmi sulla visione finale del Poeta.
All’inizio dell’Inferno troviamo Dante completamente ripiegato su se stesso: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita” (I,1-3): versi troppo celebri e chiari. Dalla fossa di morte in cui precipita vedendo il male umano in tutte le sue forme (tranne qualche bagliore di luce, come nella tragedia di Paolo e Francesca), finalmente esce “a riveder le stelle” (XXXIV, 139), ritrova la capacità di orientarsi di nuovo nella vita ed è con questa capacità che può iniziare un viaggio che è soprattutto una purificazione personale da tutti quei mali di cui ha potuto vedere le estreme conseguenze: “Per correr migliori acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno che lascia dietro a sé mar si crudele” (Purgatorio I,1-3). Da queste parole si capisce che è un viaggio interiore, fatto con l’ingegno, cioè con la mente e col cuore, anziché con il corpo. Un viaggio che lo porterà fino a contemplare la bellezza degli inizi umani, in quel paradiso terrestre che è una metafora simile al tornare bambini di cui parla Gesù nel Vangelo: è l’infanzia dell’umanità prima del peccato: “Io ritornai dalla santissima onda rifatto sì come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle” (XXXIII,142-145). Un’esplosione di novità, rimarcata dalla ripetizione di quella parola che riecheggia quel bel passo dell’Apocalisse in cui il profeta vede cieli nuovi e terra nuova (21,1).
È in questa salita alleggerita da ogni forma di male e grazie ad occhi purificati perché tornati alla semplicità originaria che Dante può vedere l’aldilà delle stelle, di quel globo affascinante e misterioso che è l’universo, capire non tanto come il mondo e il cielo si muovano, ma perché, il senso di tutto che per Dante non è altri che Dio stesso: “La gloria di Colui che tutto move per l’universo penetra e risplende in una parte più e meno altrove. Nel ciel che più della sua luce prende fu’ io e vidi cose che ridire né sa né può chi di lassù discende (qui riprende le parole di Paolo in 2 Cor 12,4)” (Paradiso I,1-6). È in quest’ultima tappa che non solo contempla gli effetti prodotti da Dio in coloro che hanno pienamente corrisposto ai suoi disegni, coloro che, come direbbe Francesco d’ Assisi “sono morti nella sua santissima volontà”, ma capisce che Dio è Colui che ha creato e conduce il mondo in modo misterioso ma con certezza: non è altro che l’amore, quell’amore che riesce a penetrare persino nel profondo dell’inferno (per tre volte Francesca dice la parola “amore”!); quest’ amore ha completamente trasformato Dante e probabilmente lo ha riconciliato anche con coloro che gli hanno fatto del male, che lo hanno esiliato e gli hanno tolto ogni dignità: “Ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’ igualmente è mossa, l’Amor che move il sole e l’altre stelle” (XXXIII,143-145).
Dante scrisse poco prima di morire gli ultimi canti del Paradiso che in un primo momento non si trovavano; ma ciò vuol dire che alla fine della sua vita il Poeta aveva chiuso tutti i conti col passato, aveva acquietato tutte le sue ansie, le sue pretese di giustizia o di vendetta e aveva capito che c’è qualcosa di più grande che va oltre anche ogni male e ogni dolore e che rappresenta il vero scopo dell’esistenza di ciascuno, il motivo per cui valeva la pena spendere la propria vita. Ma qual è l’amore di cui Dante parla? Non è certo quello intellettuale caro alla filosofia, ma è l’amore in tutta la sua carnalità e concretezza: l’esperienza dell’amore di Dio non può essere fatta se non passando per l’umanità ferita, crocifissa. Dante ha capito molto bene l’affermazione di Giovanni nella sua prima lettera: “Non puoi amare Dio che non vedi se non ami il fratello che vedi” (4,20). Ed è forse proprio questo il passo della bibbia che Dante ha in mente (è una mia opinione) quando cerca di balbettare la visione di Dio:“Nella profonda e chiara sussistenza dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza; e l’un dall’altro come iri da iri parea reflesso, e ‘l terzo (lo Spirito) parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri … Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, dalli occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta della nostra effige per che ‘l mio viso in lei tutto era messo” (XXXIII,115-120.127-132). Nei primi versi cerca di descrivere la Trinità, negli ultimi l’Incarnazione. Come a dire: se vuoi capire veramente chi è Dio devi vedere in lui impresso il volto dell’uomo e puoi capire veramente l’uomo solo se lo vedi come riflesso del mistero di Dio, la sua immagine. Quest’ultima affermazione, tuttavia, va spiegata perché troppo spesso nella storia gli uomini hanno avuto la pretesa di esser dio o di parlare in suo nome.
Proprio mentre sto scrivendo si assiste alla glorificazione in morte di un uomo che ha condizionato con la sua presenza la società e la politica italiana, uno che si è detto fino alla fine indispensabile per il bene dell’Italia, dell’Europa e del mondo, fino a definirsi “tecnicamente immortale”, l’uomo della provvidenza che è riuscito con il suo savoir faire dove il suo modello (mai palesato) è stato fermato in modo violento. Se fosse stato al posto di Dante non avrebbe detto “nostra effige” ma “mia effige”.
Alla luce del grande Poema ma anche di queste lezioncine della storia mi chiedo e chiedo a chi legge: in quale dio credo? In quel dio che è il riflesso della mia sete di potere e del desiderio di essere osannato e glorificato o nel Dio che facendosi uomo si è addossato i nostri dolori facendo cadere su di lui il castigo che noi meritavamo (sono parole di Isaia)? È il dio degli eserciti o il Dio che si identifica con gli ultimi, che ascolta il grido della loro oppressione? Dimmi in che dio credi e ti dirò chi sei. È questo che Dante ci ha voluto dire con la sua opera. Al posto di Dio ci possiamo mettere i valori in cui crediamo, ma il risultato è identico. Quell’effige iscritta nel mistero può essere sia il nostro ego elevato a sistema, sia l’altro da me al quale mi devo accostare con rispetto e cura. Sta a noi scegliere quale dio vogliamo.☺

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