Caro ministro bussetti
15 Giugno 2019
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Caro ministro bussetti

Mi accingo a scriverle sapendo già che Lei non mi leggerà mai, ma a volte – per molti, almeno, è così – la scrittura ha la benedetta funzione terapeutica di lasciarci esprimere in maniera compiuta, raccogliendo meglio i pensieri che, nell’emotività e nella parola, rimarrebbero sparsi, confusi, inespressi. Provo a farlo con i miei.

Un altro anno scolastico si chiude. Lei non sa di quali bellezze noi insegnanti siamo i privilegiati custodi. Affezionarsi a dei ragazzi, vederli crescere, accompagnarli mentre passano dalle codine al rossetto, dalla voce infantile ai baffetti, e soffrire un po’ al pensiero che bisogna lasciarli andare via, è uno di questi privilegi grandi. Su cui, forse, a giugno riflettiamo più del solito.

E mi ascolti, allora. Noi insegnanti abbiamo bisogno che qualcuno sia così folle e disposto ad entrare in questa nostra magìa quotidiana, come quella di una risata coi propri alunni, di un gesto di tenerezza, di un progresso toccato con mano dopo sacrifici spalmati su mesi o anni, di momenti di condivisione poetica con i propri ragazzi, mezzi alunni, mezzi figli… è l’inspiegabile sovrapposizione di dimensioni che mai nessuno ci toglierà.

Se non si è assaggiata questa poesia, tutto quello che è scuola e che intorno ad essa ruota, manca di sale, sapore, smalto. Chi non ha mai pianto o riso con un allievo, non può decidere per noi. È vero? Ma abbiamo anche bisogno che qualcuno sia così coraggioso da entrare nei nostri guai. Perché abbiamo anche quelli. E chi li ignora, specie se ha delle grosse responsabilità a riguardo, o è inadeguato o è in malafede.

Ministro, mi ascolti. Non abbiamo bisogno di grembiulini o di qualcuno che ci ricordi il valore dell’educazione civica, rispolverata in mille salse diverse in un taglia e cuci di ore da brivido. Il nostro mestiere si basa sull’educazione civica, mi creda. Lo è per natura e per vocazione, prima che per contratto. Abbiamo men che meno bisogno di chi limiti, oltraggi, la nostra libertà di insegnamento, sospendendoci se i nostri alunni (faticosamente abituati a ragionare criticamente e a pensare con la propria testa), accostino il ministro Salvini, e il suo scellerato decreto, alle leggi razziali, uno dei provvedimenti più bui della più buia pagina della nostra storia.

Abbiamo invece bisogno che qualcuno, di questo nostro mestiere, riconosca finalmente l’importanza, la dignità, e ci tratti come professionisti. Una volta tanto, una volta per tutte. Abbiamo bisogno di essere selezionati, scelti, formati, con serietà, con dignità, con rigore. Nelle aule non può entrare chiunque. Continueranno ad entrare, è vero, esseri umani, fallibili, con dei limiti, e dunque capaci di sbagliare. Ma siamo stanchi di vedere in cattedra persone che non hanno le benché minime competenze didattiche, pedagogiche, relazionali. Siamo stanchi che, nella quiete di omertose complicità, chi sgobba debba essere mescolato a chi non prepara una lezione da tempo immemorabile. Siamo stanchi che un fannullone rubi lo stipendio per quarant’anni e che una Rosa Maria Dell’Aria venga sospesa per aver esercitato fino in fondo, con serietà, coscienza, responsabilità, il suo mestiere.

Abbiamo, inoltre, bisogno di tutele. Se un genitore travalica il suo ruolo e ci attacca verbalmente (succede, con buona pace dei tanti, ammirevoli genitori corretti e garbati), dobbiamo poter contare su un sistema che esiga il nostro rispetto e lo ricordi a chi lo ha dimenticato o, deliberatamente, lo ignora. Se un collega ci insulta, utilizza la calunnia per diffamarci, esercita pressioni o assume comportamenti che inquinano alle radici la serenità di un ambiente, abbiamo bisogno di norme che permettano di isolare il colpevole, non la vittima, e di restituire fiducia e respiro ad una comunità scolastica. Il mobbing esiste, ministro. E non va depenalizzato, non vanno fatte spallucce e tiriamo avanti, perché è una delle cause più frequenti e insidiose del famigerato burn-out, che tutti ci riconoscono ma nessuno si decide a prendere in carico.

Abbiamo bisogno di aule attrezzate, strutture sicure, carta igienica e risme di carta, senza dover lesinare come formichine premurose sul numero di fotocopie da distribuire oggi, manco fosse un lusso da tenere a freno e non un legittimo strumento. Abbiamo bisogno di aggiornamenti seri, rigorosi, utili. Non di risibili corsi sulla sicurezza dopo i quali non siamo capaci di segnalare una crepa, eppure ci ritroviamo nominati responsabili. Ma di che cosa? Abbiamo bisogno di confini. Perché, sebbene i “lavoratori della conoscenza” abbiano a che fare con stili di apprendimento e fattori motivazionali, e sebbene amino i loro ragazzi in modo intraducibile (tanto da fare i funamboli per capire, venire incontro, stimolare, entrare in empatia e quant’altro) non ci si può chiedere di essere, di diventare quello che non siamo.

Noi siamo, e restiamo, degli insegnanti. Dobbiamo tendere a dei traguardi, ad una formazione, a delle finalità didattiche, pedagogiche. E ciò non ci fa dei ragionieri che usano la calcolatrice. Ci fa dei professionisti che progettano dei percorsi e devono valutarli. Se riteniamo che, nonostante tutte le strategie didattiche messe in atto, certi obiettivi non siano stati raggiunti in un arco temporale, dobbiamo sentirci liberi di bocciare. Depenalizziamo la bocciatura, per favore, signor ministro. Non è impronunciabile, via.

Non è il peggio che possa capitare nella vita di un ragazzo. Nell’ambito di un intero percorso scolastico, ci sta, ci può stare, e non è un dramma, non va trattata o accolta come una sciagura. È sempre l’ultima spiaggia, e siamo tutti d’accordo, ma va contemplata, non temuta come la peste. Non è il tiro di un cecchino nemico, ma la meditata, spesso sofferta decisione di un team di professionisti che la ritengono più educativa di una promozione immeritata.

È una strategia didattica e pedagogica anche quella. Se un ragazzo non raggiunge determinati obiettivi, siamo stanchi di sentirci sempre dire (direttamente o indirettamente) che la colpa, gira e gira, è la nostra. Non è così. C’è l’errore umano, certo, e tenga conto che siamo una delle categorie dove il “senso di colpa” per non aver fatto abbastanza, e abbastanza bene, è atavico, innato, inestirpabile direi. Connesso al senso di responsabilità profondo con cui molti di noi svolgono questo mestiere. Ma abbiamo proprio per questo bisogno di riappropriarci di un esercizio libero e sereno di tutte le nostre prerogative.

Ministro, in una lettera non ci può stare tutto, anzi non ci può stare proprio niente. In una legislatura, però, si possono porre le basi per un cambiamento, anche se perché si attui e porti frutto c’è bisogno di anni, e forse di intere generazioni che lascino il passo (ed il posto) ad altre. Ci ascolti. La smetta di parlare di aria fritta. Si lasci toccare dalle vette delle nostre gioie più intime, di cui non sa quanto siamo gelosi. E scenda giù nell’abisso delle nostre giornate grigie, difficili, in cui sembra di lavorare in un sistema senza uscita.

Credere nel cambiamento è per noi un dovere professionale. Lavoriamo con i giovani, che del cambiamento devono essere i protagonisti, sempre, in qualunque epoca. Non ce n’è una che non richieda passi avanti, e lotte, e cammini coraggiosi.☺

 

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