Cibo e cultura
25 Maggio 2018
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Cibo e cultura

Fuori dalle ubriacature televisive dei masterchef, un piccolo libro di cucina diventa anche un racconto di luoghi e la dimostrazione del valore sociale e culturale dell’ alimentazione. Lo ha scritto Elio Vernucci, un medico colto che ha lavorato per lunghi anni all’ospedale di Piombino in Toscana, ma che è nato a Colli a Volturno e cresciuto a Sepino. La madre era di Roccamandolfi, paese abbarbicato alle pendici del Matese. I molisani non sono gente stanziale: si spostano, più per necessità che per scelta: dopo il Molise la Ciociaria, poi Piombino e la Maremma toscana. Un itinerario autobiografico che usa la memoria gastronomica per restituirci l’acquerello di un’Italia viva, ingiustamente marginalizzata dal processo di sviluppo contemporaneo. Nelle ricette descritte in stile artusiano, non scorrono città invisibili, ma luoghi veri e tradizioni profonde: Sepino, Roccamandolfi, Cantalupo e San Giuliano del Sannio, paesi dei legumi, del caciocavallo e di molte altre cose; Cellole, verso la costa di Baia Domizia e Baia Felice in Terra di Lavoro come storicamente si chiamava il Casertano, oggidì immeritatamente “terra dei fuochi”; poi Alatri, centro significativo della Ciociaria; infine Piombino, un tempo simbolo della modernità industriale, oggi città stanca dell’incertezza postindustriale.

L’autore ricostruisce il percorso familiare attraverso le ricette di piatti comuni, espressione di un’alimentazione semplice e buona, strettamente legata al territorio e alle necessità alimentari, ma anche al gusto, alle risorse naturali e agricole, che si tratti dei monti del Matese o del mare di Toscana. Una guida alle pietanze più tipiche e al tempo stesso uno spaccato del patrimonio gastronomico ancora conservato nelle case, nella memoria delle persone e dei paesi. Paesi e paesaggio, nella loro dimensione fisica e sociale, sono molto legati al cibo, che finisce per essere fattore costitutivo dell’identità collettiva, oltre che risorsa economica e culturale.

Il percorso gastronomico parte dal Molise, piccola regione dell’Italia interna, attanagliata dal

paradigma dell’isolamento e della mancata crescita, ma in realtà contenitore di patrimoni e valori che possono costituire oggi le basi per un laboratorio di rinascita territoriale. Lungo le reti disegnate dalla civiltà agro-silvo-pastorale, della quale i tratturi – uno dei quali attraversa lo splendido insediamento romano di Altilia-Sepino – costituiscono l’eredità più significativa, risiedono veri e propri giacimenti gastronomici, spazio ideale per l’esplorazione del gastronauta, cioè colui che va alla ricerca del gusto, del mangiare e del bere come esperienza, amante della convivialità, animato da un interesse culturale che dietro a ogni prodotto ricerca tradizioni e valori del territorio concepito anche come spazio metaforico, frutto di una cultura comunitaria che produce valori reali e simbolici.

La memoria non è solo storia, ma anche futuro nell’orizzonte globale che ci invita a valorizzare le specificità. La ricostruzione dell’origine e delle trasformazioni dei piatti e delle abitudini alimentari delle famiglie spinge alla conoscenza dei patrimoni locali e alla riscoperta delle varietà autoctone di piante e colture. È il caso della Tintilia, il rustico vitigno rosso del Molise che, salvato da pochi agricoltori è oggi una riconosciuta etichetta di vino a denominazione di origine, ma la considerazione potrebbe valere per molti altri prodotti. Quella tratteggiata da Elio Vernucci è una strada del gusto che si snoda nell’Italia centrale, un ritratto della varietà gastronomica e della centralità delle risorse di base della cucina italiana, che si tramanda per via empirica, orale, scritta e ora anche sul web. Non solo sapori, ma anche suoni, odori, socialità: “non sgusciate i piselli da soli” – scrive, ad esempio – invitando a recuperare il senso della convivialità familiare e amicale che si svolgeva attorno alla preparazione dei cibi; sensi che rimandano ai campi, ai boschi, al mare, alle pratiche tradizionali dell’ agricoltura, della caccia, della pesca, alla vita familiare e vicinale, all’inesauribile e fecondo rapporto tra uomo e natura. È anche uno spaccato autentico, non patinato, della dieta mediterranea: la pasta e i legumi (fagioli, ceci, piselli, lenticchie…), gli erbaggi spontanei (l’origano del Matese per “arraganare” le alici o il baccalà) e le verdure coltivate, il vino e l’olio d’oliva, le carni della tradizione pastorale e venatoria, il pesce che diventa protagonista sopratutto a Piombino, i dolci e la demistificazione degli anti-pasti; e poi il ruolo centrale assunto nelle società povere dalle piante del Nuovo Mondo, patate e mais in primis, il pane dei poveri come le antiche castagne. La cucina è specificità, ma anche contaminazione, tradizione e innovazione, influenze globali e varianti locali che si intrecciano.

Il Molise è terra di montagne, dove nevicava molto. Il libro è uno spettacolo in tre atti, con un prologo e diversi appassionanti fuoriscena, una sorta di commedia tragicomica ispirata alle recite che si facevano nelle case di Sepino nelle lunghe serate di neve. L’espediente letterario è quello del racconto alla figlia, come a sottolineare la necessità di una ritrovata trasmissione generazionale dopo la rottura falsamente “modernista” dei fili che legavano vecchi e giovani. I piatti non contengono solo il cibo, ma anche il genius loci. E lo spirito di un luogo non si può trasportare, nemmeno con cento cammelli, come insegna l’aneddoto di Tamerlano di Samarcanda, o come dimostra il pane di zia Amelia a Roccamandolfi. In tempi di globalizzazione e di crisi, la forza del locale (ben distinto dal localismo) può essere l’anello per collegare efficacemente economia e turismo, lavoro e formazione, città e campagna, vecchie e nuove generazioni. Il territorio rivisitato e reinterpretato può diventare così il luogo di difesa dalla crisi, valorizzando i caratteri identitari dei patrimoni locali, di cui il cibo e le pratiche alimentari costituiscono un tassello concreto di primaria importanza.☺

 

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