Grandi opere
10 Settembre 2018
laFonteTV (3191 articles)
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Grandi opere

In questo tragico scorcio di estate che sta diffondendo nelle nostre anime un sottile senso di indefinibile inquietudine e di angoscia, credo che un po’ tutti, se ci guardiamo dentro, avvertiamo la necessità di restituire alle parole un contenuto di verità, ripulendole pazientemente delle stratificazioni che le hanno stravolte.

Se ne parlava un paio di settimane fa a Larino, alla riunione annuale di noi articolisti de la fonte, di questo alfabeto dei diritti da riscrivere, per ritrovare quella condivisione di significati che sola può consentirci di parlare la stessa lingua. Di utilizzare non solo il codice ortografico e grammaticale che ci identifica come parlanti italiani, ma anche e soprattutto quell’insieme di valori e di memoria che fa delle parole pietre, come i nostri padri latini avevano capito benissimo. Pietre che lasciano segni, che non andrebbero lanciate in aria da giocolieri incapaci e cattivi come quelli che purtroppo hanno in mano i destini del nostro paese in questi giorni.

Tanti vocaboli da riscrivere ricreandone ex novo il senso, altrettanti da cancellare completamente relegandoli nella soffitta polverosa dei termini che non vogliamo più sentire, soprattutto se urlati con l’odio e la becera volgarità che solitamente li accompagna o usati per mascherare il vuoto e la voglia di profitto.

Dopo Genova e la sua apocalisse, ecco arrivare infatti puntualmente alcune di queste parole pericolosissime: “grandi opere”. Le promesse di Salvini e Di Maio per un intero programma basato su di esse fanno rabbrividire; così come fa rabbrividire (e infuriare, davvero) l’assoluta idiozia di chi parla così sulle macerie fumanti di quella che è stata per decenni la grande opera simbolo di Genova, quel ponte ridotto ad un assurdo moncherino che si è portato via 43 vite in un fotogramma da film dell’orrore. È proprio perché le parole hanno perso senso comune e condiviso che questi due soggetti possono rispondere al fallimento totale di una grande opera promettendone altre, e proprio nella zona forse più sventurata e martoriata d’Italia.

E il terremoto che sta destabilizzando la vita di tanti molisani ha smascherato il nonsenso di un’altra “grande opera”: il gasdotto Chieti Larino, parte integrante del sistema che dovrebbe attraversare tutta l’Italia, dal Salento in su, per trasferire il gas nel Nord Europa. Tutti i paesi che oggi in Molise tremano sono sul percorso del gasdotto, e la linea sismica e franosa più critica segue fedelmente lungo l’Appennino le linee della “grande opera”.

I sindaci di Guglionesi e Palata hanno già dichiarato di volere cancellare il sì dato affrettatamente al progetto: è possibile sperare che anche altri avvertano il dovere di pensare prima di tutto al bene dei cittadini, alla loro incolumità, al loro territorio? Che riflettano sul significato delle parole che sono state ripetute fino a diventare del tutto vuote di significato, come “indispensabile”, “progresso”, vantaggio economico”, “sicurezza”?

Personalmente sono convinta che solo attraverso la riscoperta del senso vero delle parole, se realmente sedimentato nelle coscienze di tutti, sia possibile invertire il degrado che ha contagiato vita sociale, senso di comunità, politica e modo di amministrare.

Solo gridando ad alta voce il significato vero delle parole potremo fermare l’assurdo ballo da orchestra del Titanic nel quale ci stanno trascinando: dobbiamo avere il coraggio di dire chiaramente che una “grande opera” (per come hanno stravolto le parole) è sempre e solo saccheggio del territorio, profitto per pochi turbo capitalisti, occasione di infiltrazioni mafiose, sfruttamento del lavoro, cancellazione dei diritti. Che Territorio non significa area edificabile e commerciabile, ma ha a che fare con la memoria collettiva, con la necessità di vedere il bello intorno a sé, con il Genius Loci che parla dentro ciascuno di noi.

Restituiamo ai nomi la loro natura di cose: abbiamo bisogno di una nuova “Via dei Canti”, come nella teogonia degli aborigeni australiani, che camminando il loro continente e cantando diedero nome, e quindi vita, a ciò che via via vedevano intorno.

Forse così riusciremo a non sentire più quel dolore sordo che da mesi pesa sul cuore, ingigantito ora dalle scene strazianti di Genova; quella voglia di piangere che assale ogni volta che leggiamo di migranti respinti, di navi che vagano senza approdo, di persone di colore aggredite e prese a fucilate, di diritto a sparare sempre, di vaccini facoltativi. Quello straniamento profondo che diventa inevitabile quando ti accorgi di non parlare più la stessa lingua della maggioranza di coloro con i quali interloquisci: ci hanno cambiato l’alfabeto, non capiamo più cosa dicono.

E allora è tempo di riprenderci le parole: ricreiamole, perché rinascano senza più cattiveria, aggressività, irragionevolezza, voglia di far male.

Perché non possano più nuocere a noi, ai nostri fratelli e alla nostra terra.☺

 

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