Cultura della vergogna
Nella sua essenzialità la lingua inglese ci aiuta a trasmettere con sinteticità concetti che, invece, nel nostro idioma avrebbero bisogno di molte più parole. È il caso del termine body shaming [pronuncia: badi sceiming]. Probabilmente esso non sarà sfuggito a molti di voi, anche perché la cronaca ed i media si sono soffermati spesso – ed ancora lo fanno – su episodi in cui persone, sia uomini che donne, sono ‘giudicate’ – ed esposte pubblicamente – per il loro aspetto fisico (!).
Body shaming, infatti, è vocabolo composto dal sostantivo body (in italiano ‘corpo’) e dal verbo shame (qui alla forma -ing, participio presente equivalente ad una proposizione relativa) che traduce grosso modo ‘provare vergogna’, ma che assume una più variegata valenza semantica, essendo sia sostantivo che verbo. Al di là dell’aspetto fisico, però, la cattiva pratica di esprimere valutazioni su altri, lo shaming appunto, può riferirsi ad atteggiamenti, opinioni, orientamento: per estensione questa emarginazione si tradurrebbe in un vero e proprio social shaming, vale a dire esporre una persona ad un giudizio incondizionato (e spesso assai negativo) riguardante tutti gli aspetti della sua personalità.
Critiche per presunti difetti o imperfezioni fisiche, commenti inappropriati sul peso, soprattutto nei casi di individui in sovrappeso, ma anche per coloro che sembrano troppo magri, battute non sempre gradevoli: questi sono alcuni degli aspetti di questa orribile pratica che crea danni alla nostra psiche che, com’è noto, è modellata dall’ambiente culturale. Le conseguenze dello shaming – quando non estreme! – sono soprattutto la diminuzione del livello di autostima, l’ insorgere di disturbi alimentari, crisi ripetute di ansia, depressione. Resta inteso che una gran parte della responsabilità va addossata all’uso sempre più frequente della rete che ha consentito, negli ultimi tempi, di esprimere – spesso in vigliacco anonimato – giudizi malevoli o proferire insulti con leggerezza ed approssimazione. Veramente un cattivo esempio di rapporti sociali, manifesto di un mondo in declino verso l’inciviltà.
È sempre più triste imbattersi in episodi di cronaca che vedono protagonisti, loro malgrado, gli adolescenti – e soprattutto i preadolescenti! Non ultimo il caso del tredicenne di Gragnano che si è tolto la vita dopo aver subìto ingiurie, e forse minacce, che noi definiremmo gratuite ed immotivate. Eppure ancora oggi accadono eventi simili. Per chi, come chi scrive, ha lavorato a contatto con le giovani generazioni non è ignoto il fenomeno del “cyberbullismo”, una variante del più generico shaming e che ha luogo in ambiente scolastico ma veicolato dai social media. Non è più necessario, oggi, organizzare uno scherzo o ridicolizzare un/a compagno/a di classe ponendosi in contatto con lui/lei “di persona”. È molto più agevole – ahimè – servirsi della rete e ‘da remoto’ attuare ciò che ci si è prefissato. Posso assicurare che, da decenni, da parte dei docenti vengono messe in campo iniziative atte a sconfiggere tale fenomeno ed educare i giovani ad una convivenza civile e costruttiva, ma non bisogna mai desistere da tale impegno, come ci ricorda tristemente la cronaca quotidiana.
Eppure nel nostro passato non sono mancati esempi di tentativi vòlti a regolare le relazioni tra gli individui. Uno di questi lo riferisce Eva Cantarella che ha a lungo studiato il mondo classico, in particolare la civiltà greca. Secondo la professoressa Cantarella nella Grecia antica si potevano rilevare due diversi ideali culturali: la cultura della ‘colpa’ e quella della ‘vergogna’. “Per ‘cultura di colpa’ [gli antropologi e gli psicologi sociali] intendono una società in cui i comportamenti vengono determinati attraverso l’imposizione di divieti, e in cui chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un senso misto di angoscia, di colpa e di rimorso”. Mentre si intende “‘cultu- ra di vergogna’, quella in cui l’adeguamento alle regole non è ottenuto attraverso l’ imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento: e nella quale coloro che non si adeguano a tali modelli incorrono nel biasimo sociale, e in una conseguente sensazione di ‘vergogna’” (Itaca).
Proseguendo nella sua analisi Eva Cantarella sostiene che le due culture presentano “caratteristiche di fondo che le contrappongono e quasi le oppongono l’una all’altra, e rispondono a concezioni di vita, valori ed aspetti psicologici e sociali collettivi non solo diversi, ma spesso addirittura antitetici”. Le società antiche assumevano esclusivamente o parzialmente uno di questi modelli ‘ideali’, al punto da determinare le differenze “tra alcune culture in cui la reputazione è tutto, e altre, in cui prevalgono emozioni e valori come il pentimento e il perdono”.
È evidente quindi il ruolo dell’ opinione pubblica nella costruzione dell’ identità, sia nel passato che nel presente. È il body shaming contemporaneo una riproposizione della ‘cultura della vergogna’, con gli stessi obiettivi, seppur rudimentali trattandosi di civiltà antiche? O indica piuttosto l’ egoismo come unico fine, l’assenza totale di coinvolgimento, la mancanza di consapevolezza sociale? ☺
