Davanti al fuoco
19 Febbraio 2020
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Davanti al fuoco

“Ambarabà per un falò/dove metto sulla brace/tutto quanto non mi piace./Vecchio gioco e libro nuovo/quel che cerco e che non trovo,/l’ubbidienza e la pazienza./Far la nanna quando è presto/la minestra e tutto il resto”.

Vecchia filastrocca, o del potere catartico del fuoco visto dai bambini. Bello e spaventoso il fuoco, devasta e purifica, parla scoppiettando, vola scintillando, magnetizza lo sguardo, conforta le membra, ma quanto più arde, tanto più ci minaccia; inizio della storia umana, luce e calore, dalla legna alla cenere a nuova vita. Cenere e vita: perfetta armonia degli opposti.

Non amo le foto, specie non amo riguardare me e i miei cari nelle foto, tuttavia ho ben impressa in memoria la mia immagine, seconda o terza elementare, un carnevale scolastico e milanese: intirizzita in un vestitino da pacchiana, il cui grembiule recava la scritta “Molisanella”, stavo in ultima fila tra le mie compagne e facevo di tutto per sfuggire l’obbiettivo del fotografo. Delizioso l’abito, per carità, e prezioso, in quanto frutto dell’amorevole cura di nonna, sarta provetta; io, comunque, ricordo di essere stata imbronciata tutto il giorno, non tanto perché tra le molte fatine rosa e turchine milanesi ero l’unica nerissima molisana, ma soprattutto perché non mi è mai piaciuto il Carnevale: lo trovo artificioso, dirompente, a tratti violento, mascherate da ghigno e coatta sospensione dell’ordine; non è liberatorio per me il Carnevale, piuttosto è furioso.

C’è una festa, però, che precede il Carnevale e che nella mia contorta ricerca di un’identità rigorosamente apolide sento appartenermi: è la festa del fuoco di sant’Antonio abate, che si celebra il 17 gennaio a Campobasso e che nella mia classifica delle feste molisane sta appena dopo il Corpus Domini e al pari di un’altra festa del fuoco, che si svolge questa volta a Mirabello Sannitico in occasione di san Giorgio.

Non so bene quando mi sono innamorata della festa di sant’Antonio, so che è stata fin da subito una passione: mi incanta il fuoco sul sagrato della chiesa, con quegli enormi ciocchi di legna e le persone torno torno, così, a contemplare mentre si scaldano, non silenziose eppure visibilmente devote; un profumo popolare autentico, che almeno fino ad adesso non si è irrigidito nella forma di un vuoto stereotipo folk ad uso di turisti di nicchia. Complice forse la comunità rom, cui la festa compete topograficamente nella città di Campobasso e che, chissà, garantisce al rito quell’aura ancora libera e lieve, nomade, indoeuropea.

L’accensione dei grossi ciocchi di legna, appositamente portati il giorno prima sul sagrato della chiesa da chiunque lo voglia e specialmente dagli abitanti del quartiere e della fascia rurale ad esso vicina, comincia dal mattino: celebrata la santa Messa, attorno al fuoco vengono benedetti gli animali, che molti campobassani vi conducono dai propri appartamenti cittadini o dalla campagna, in una zona della città che è ancora prossima, e non solo per contiguità geografica, alla vita agricola. Il fuoco arde tutto il giorno e i campobassani vi si recano anche per una breve sosta, un salto nella chiesa retrostante e via, ma è alla sera, dopo la processione con la statua del santo, che la festa raggiunge il suo culmine: il fuoco rosso incandescente unisce i visitatori nel calore e al bagliore del fuoco ancor meglio si staglia la forma morbida ed essenziale della chiesa, un pregio del barocco molisano, tanto semplice all’esterno quanto ricca all’interno di preziose pitture, in particolare quelle sovrastanti i quattro altari di legno e oro zecchino, uno dei quali dedicato appunto a sant’Antonio, l’anacoreta vissuto nel III secolo d.C., vittorioso sulla tentazione delle passioni, perciò spesso rappresentato in compagnia di donne suadenti che egli ignora, ed associato al fuoco in quanto, seconda la diffusa leggenda agiografica, avrebbe portato agli uomini il fuoco, sottraendolo ai diavoli dell’Inferno e nascondendolo nel bastone di ferula col tipico midollo spugnoso in grado di conservare vivo al suo interno il fuoco stesso. È una festa gioiosa quella per sant’Antonio e davanti al fuoco la sera si intonano canti popolari, si mangia anche, ma, sarà che si tratta pur sempre di una festa religiosa, l’atmosfera è composta e il centro simbolico della festa rimane il fuoco, dal quale tutti un po’ sono rapiti e nel quale ciascuno vede e sente a seconda di ciò che pensa, desidera, ricorda: ora il tepore della famigliarità, ora la fiamma della speranza, ora l’intenzione di purezza futura, ora le tante scintille di immagini passate  e  sempre presenti. Da qualche tempo una delle mie scintille è il volto di Antonietta, che molti fra voi hanno avuto l’onore di conoscere: capace di creare relazioni d’affetto con genti provenienti da ogni dove del mondo, Antonietta rivendicava orgogliosamente le sue radici poste qui, a Sant’Antonio, il quartiere più veracemente popolare di Campobasso, la sua anima di faticatori, che lei incarnava nel suo piglio pratico, nella sua intelligenza attentissima, nella generosità mai affettata.

Di qui a due giorni andrò a godermela questa festa, spero in compagnia dei miei fantastici nipotini, così da poter loro recitare la fine della filastrocca antica, che per solito tra me e me ripeto salendo, al ritorno, le scale che da Sant’Antonio portano al centro città: “Ambarabà mamma e papà/ zie cugini grandi e piccini/ guarderanno il mio falò? Fuori o dentro ci staranno?/ Io non c’entro: non lo so”.

A presto.☺

 

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