Dell’accogliere
20 Marzo 2019
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Dell’accogliere

“Chiunque incontri è tuo fratello, figlio, figlia; non ci sono fratelli e sorelle di serie B, C e D. Su tutte le difficoltà riguardanti l’ immigrazione, dico: diamo prima l’accoglienza e poi le difficoltà le affronteremo”

(Andrea Gallo)

Ancora una volta su queste pagine parto da una parola per trovare senso alle cose che mi stanno intorno e si rincorrono in questi tempi bui, difficili da attraversare senza una costante sensazione di disagio e solitudine.

Guardando a Termoli il bel film di Daniele Gaglianone, Dove bisogna stare, collage efficacissimo di quattro storie di accoglienza dalla Val Di Susa a Cosenza, una frase mi ha fatto pensare ancora una volta a quanto profonda sia la potenza evocativa delle parole, e a come rispondiamo senza alcuna consapevolezza cosciente al loro richiamo, quando va a toccare qualcosa nel profondo.

“Bisogna sostare davanti al dolore”, diceva più o meno così, nel film, la psicoterapeuta di Pordenone per spiegare come avesse cominciato ad aiutare, quasi senza accorgersene, i migranti incontrati per caso nella sua città. E quella parola, “sostare”, mi è sembrata bellissima e potente; viene dal latino, sub-stare, stare sotto, stare saldo, poi divenuto fermarsi. La sosta è atto di solito volontario, per rigenerarsi durante un viaggio, per guardarsi attorno o riposarsi. Non è dunque un obbligo, un blocco che ci impedisce di proseguire; è invece qualcosa che aiuta il nostro benessere (“bene stare”), ci restituisce equilibrio e chiarisce il nostro sguardo su quello che è intorno a noi. Una interruzione che migliora la nostra comprensione dell’ambiente intorno e dentro di noi.

Sostare davanti al dolore ci porta inevitabilmente ad andare incontro all’altro, fino a che non lo si conosce e lo si accoglie; e guardando il film ho capito che le quattro storie, spiegando quanto naturale e inavvertita fosse stata la sosta per l’accoglienza, dicevano in fondo la stessa cosa: quanto importante sia appunto il fermarsi, l’interrompere il viaggio della propria esistenza individuale, per darle un senso più profondo attraverso la difesa di quella altrui. E affermavano in modo non negoziabile l’impossibilità di tornare al vuoto di una vita senza accoglienza dopo aver sostato davanti all’umanità dolente.

La stessa sensazione di indispensabilità della sosta davanti al dolore l’ha trasmessa a Campobasso il 15 febbraio l’incontro con Mimmo Lucano, sindaco di Riace, sotto processo per reato di umanità: forza accresciuta dal trovarsi faccia a faccia con un uomo che da sempre ha incarnato la bellezza del costruire ponti e non muri, ma che suo malgrado è ora divenuto un simbolo di lotta a tutto campo contro la barbarie imperante.

E ancora una volta le parole ci aiutano a comprendere la realtà nella sua essenza più profonda: Mimmo Lucano spesso non le trovava, preso da una emozione vera e toccante nel ricostruire la storia del suo paese e della sua gente, che ha aperto cuore, casa e luoghi ai migranti; ma quelle parole esitanti, a volte ripetute o imprecise, trovavano senza intermediazione la strada della verità. Non c’era mistificazione né distorsione, le sue parole erano cose, erano vita ed emozione; e in sala l’empatia e l’identificazione si toccavano con mano, nel silenzio totale che ha accompagnato i 45 minuti di racconto, interrotto solo ogni tanto da applausi che proprio non si riusciva a trattenere.

E anche qui una frase mi ha fatta appunto sostare: parlando del primo sbarco di 300 migranti curdi, che ha dato inizio a questa incredibile storia di rinascita morale e materiale, e volendo sottolineare che non esiste in realtà un “modello Riace”, perché tutto è iniziato e si è poi sviluppato in totale spontaneità, Mimmo ha detto a un certo punto: “Il vento ha portato quel veliero nel nostro porticciolo”.

In questa piccola frase c’è tutto un mondo che parte dall’antichità, dalle vele delle trireme romane che solcavano il mare di Calabria fino ai barconi carichi di uomini e donne stremati, stranieri in cerca di una spiaggia dove trovare asilo. E ho visto da un lato i visi terrorizzati di chi ha rischiato la vita in mare e dall’altro, speculari e salvifici, i volti sorridenti di chi lì ha saputo sostare davanti a quel dolore e ha dato loro una casa. Sono gli stessi volti, fatti della stessa volontà di vivere: le facce e le storie di chi ha lasciato la propria terra per disperazione, e quelle di chi vede la propria terra spopolarsi e morire per il lento andar via di chi non vede futuro lì dove è nato, per mancanza di lavoro e per sopraffazione di mafia.

Dall’intreccio di quelle mani tese ad accogliere è nata una storia bella, solo temporaneamente dispersa dalla disumanità di un “ministro” della paura: come ha detto Mimmo concludendo il suo narrare, Riace resta una conquista di civiltà. E i suoi abitanti, che hanno saputo sostare davanti al dolore senza volgere le spalle, come le quattro donne del film di Gaglianone, e intrecciare il proprio bisogno di nuovi cittadini con la ricerca di una nuova patria dei migranti, continuano a parlarci dell’indispensabilità dell’accoglienza.

Non per generosità, o non solo; anche per “egoismo”, come ha detto l’altra sera il sindaco di Castel Del Giudice: per salvare i nostri piccoli paesi, e per salvare noi stessi dalla disumanità di Salvini.☺

 

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