L'elettroshock provoca la perdita della memoria, la perdita di capacità acquisite, talenti, ricordi, parte delle nostre esperienze, parte di noi stessi e non "cura" assolutamente nulla. Viene usato per chi è farmaco-resistente.
L. era mia vicina di stanza, aveva i capelli bruni e la pelle scura; assomigliava ad un indiano con quei suoi occhi profondi, grandi, che non nascondevano la tristezza incolmabile che la seguiva. Quando camminava rasente ai muri con il viso quasi schiacciato dalle spalle incurvate. Non voleva essere notata, non voleva essere vista. Non so perché mi avvicinò, forse perché le dissi che avevamo lo stesso nome forse perché le sembravo molto a posto-serena, forse perché avevo una stanza da sola con una grande poltrona in similpelle marrone, e non le sedie scomode del soggiorno comune. L. ci si sedeva, ci sprofondava, mi guardava con occhi scuri e labbra serrate, silenziosa: a volte mi raccontava della sua vita, dei suoi dolori. Aveva paura per i beni familiari che altri avrebbero diviso, data la sua fragilità, dopo la morte del marito. Era sensibile, versatile, intelligente, con una buona dose di pragmatica intelligenza che per anni aveva applicata alla gestione dell’azienda familiare.
Tutto accade, come il solito, di notte. La sera c’eravamo salutate normalmente: lei forse un po’ più triste, un po’ più scura, mi disse che sarebbe ritornata presto a casa.
Sei pronta? le risposi -mi guardò in modo inespressivo-.
Il mattino dopo non camminava rasente i muri. Non la vidi. Il pomeriggio invece era lì nel corridoio. Notai – strano è spettinata, lei che ha sempre cura di sé – poi la guardai attentamente. Si aggrappava ai muri, molto lentamente con le unghie con le palme delle mani – un passo due e si fermava, smarrita nel tempo e nello spazio. Penso che non avrebbe osato neppure valicare i tre metri di corridoio che la separavano dalla mia stanza. Andai verso di lei, la salutai. Le dissi vieni a giocare a scarabeo, la portai nel salotto comune.
Si sedette, mise quattro tasselli del gioco in mano, erano i tasselli di casa o saca o non so, ma L. non sapeva comporre nessuna parola.
Non sapeva con quattro lettere fabbricare nulla, né casa né saca ne scaa; girava e rigirava in mano penosamente le tesserine dello scarabeo, si guardava le mani dicendo scusatemi. Cominciò a sudare – disse – mi manca il respiro, devo alzarmi. L’accompagnai per il corridoio. – Ci vediamo domani, vedrai, starai meglio – le sussurrai lasciandola alla soglia della sua stanza. Mi sorrise appena, guardandomi o forse guardando oltre,
Non l’ho più vista. Era di famiglia bene che non voleva si sapesse nulla della sua malattia.
"Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (…). Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone" – (F.Basaglia).
Pierina aveva 65 anni era una contadina che faceva la perpetua presso un parroco di un paesino dell’Appennino. Arrivò come un ciclone nella villa con le statue del Canova. Era agosto inoltrato nel grande giardino della villa e ci si poteva mettere al sole a prendere la tintarella.
Qualcuno anzi mi disse che molti pazienti si facevano ricoverare in quel periodo proprio per prender il sole per poi mandare cartoline da luoghi di mare perché non si sapesse nulla del loro ricovero!
Pierina prendeva il sole senza maglietta con il reggiseno bianco a fiorellini azzurri; fu ripresa aspramente dalle infermiere che la fecero rivestire, mentre lei in dialetto brontolava che gli uomini però potevano tenere tutto da fuori che nessuno diceva nulla!! Pierina quando mi vide per la prima volta, mi chiamò bella figa e mi chiese perché stavo lì invece di correre fuori e scopare con più uomini che potessi. Se vuoi, anche qui, mi disse, ce ne sono alcuni e rise mostrando occhi celesti, un celeste innocente.
Le infermiere facevano divertire noi altre depresse chiedendole di raccontare di quando aveva fatto l’amore con il marito sulla lavatrice e di quella volta che lui l’aveva afferrata, mentre spianava la sfoglia! Pierina mimava le sue storie, condendole con parole a voce bassa, parole colorite che lasciavano le signore bene di stucco, stomacate, che guardavano le infermiere in modo aristocratico per dire: ma quando la fate smettere questa pazza? Pierina mi faceva ridere con la sua “r” alla francese e con la sua incapacità di stare ferma e zitta. Non aveva peli sulla lingua e per questo mi era simpatica.
Quando arrivò il figlio, prendeva il sole vicino ad un ombrello che le piaceva; lei parlava a voce alta chiedendogli se era pronto, le signore bene facevano finta di non sentirla; gli uomini, anche i peggio messi, la punzecchiavano laidamente.
Il figlio, che lei abbracciò rumorosamente, la strattonò severo, poi la fece rivestire e la trascinò nella stanza. Rimasero dentro. Quando uscì dalla stanza della madre il figlio parlò fitto fitto con il medico.
La mattina dopo non fui svegliata dalla voce di Pierina che, come ogni giorno, doveva urlare al medico – dottore dottoreee e allora quando usciamo insieme? quando mi porti a ballare? Dottoree.
Verso le 11 la sentii piangere debolmente, avvicinarsi alla porta trascinando lentamente i piedi e le ciabatte. Chiamava in maniera flebile Franca l’infermiera e vedendo passare il dottore disse solo imbarazzata e a voce quasi bisbigliata – ma cosa mi è successo? Mi sono trovata tutta pisciata addosso, cosa ho fatto stanotte? La rividi dopo tre giorni.
Aveva il fazzoletto in testa, gli occhi bassi, parlava solo se interrogata. Diceva sì e no due parole. Si segnava sempre con il segno della croce. Non riconobbe nessuno di noi. Franca l’infermiera, al mio sconcerto, disse che Pierina non era la prima volta che subiva il trattamento.
Quando ritornò, il figlio l’abbracciò contento e la portò in giro per il parco orgoglioso. Pierina lo seguiva a piccoli passi incerti, guardando fissa e attenta il terreno per non cadere e ogni tanto il figlio che la tirava verso il sole mentre lei si copriva gli occhi celesti offesi dalla luce.
"La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere". F. Basaglia.☺
ninive@aliceposta.it
L'elettroshock provoca la perdita della memoria, la perdita di capacità acquisite, talenti, ricordi, parte delle nostre esperienze, parte di noi stessi e non "cura" assolutamente nulla. Viene usato per chi è farmaco-resistente.
L. era mia vicina di stanza, aveva i capelli bruni e la pelle scura; assomigliava ad un indiano con quei suoi occhi profondi, grandi, che non nascondevano la tristezza incolmabile che la seguiva. Quando camminava rasente ai muri con il viso quasi schiacciato dalle spalle incurvate. Non voleva essere notata, non voleva essere vista. Non so perché mi avvicinò, forse perché le dissi che avevamo lo stesso nome forse perché le sembravo molto a posto-serena, forse perché avevo una stanza da sola con una grande poltrona in similpelle marrone, e non le sedie scomode del soggiorno comune. L. ci si sedeva, ci sprofondava, mi guardava con occhi scuri e labbra serrate, silenziosa: a volte mi raccontava della sua vita, dei suoi dolori. Aveva paura per i beni familiari che altri avrebbero diviso, data la sua fragilità, dopo la morte del marito. Era sensibile, versatile, intelligente, con una buona dose di pragmatica intelligenza che per anni aveva applicata alla gestione dell’azienda familiare.
Tutto accade, come il solito, di notte. La sera c’eravamo salutate normalmente: lei forse un po’ più triste, un po’ più scura, mi disse che sarebbe ritornata presto a casa.
Sei pronta? le risposi -mi guardò in modo inespressivo-.
Il mattino dopo non camminava rasente i muri. Non la vidi. Il pomeriggio invece era lì nel corridoio. Notai – strano è spettinata, lei che ha sempre cura di sé – poi la guardai attentamente. Si aggrappava ai muri, molto lentamente con le unghie con le palme delle mani – un passo due e si fermava, smarrita nel tempo e nello spazio. Penso che non avrebbe osato neppure valicare i tre metri di corridoio che la separavano dalla mia stanza. Andai verso di lei, la salutai. Le dissi vieni a giocare a scarabeo, la portai nel salotto comune.
Si sedette, mise quattro tasselli del gioco in mano, erano i tasselli di casa o saca o non so, ma L. non sapeva comporre nessuna parola.
Non sapeva con quattro lettere fabbricare nulla, né casa né saca ne scaa; girava e rigirava in mano penosamente le tesserine dello scarabeo, si guardava le mani dicendo scusatemi. Cominciò a sudare – disse – mi manca il respiro, devo alzarmi. L’accompagnai per il corridoio. – Ci vediamo domani, vedrai, starai meglio – le sussurrai lasciandola alla soglia della sua stanza. Mi sorrise appena, guardandomi o forse guardando oltre,
Non l’ho più vista. Era di famiglia bene che non voleva si sapesse nulla della sua malattia.
"Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (…). Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone" – (F.Basaglia).
Pierina aveva 65 anni era una contadina che faceva la perpetua presso un parroco di un paesino dell’Appennino. Arrivò come un ciclone nella villa con le statue del Canova. Era agosto inoltrato nel grande giardino della villa e ci si poteva mettere al sole a prendere la tintarella.
Qualcuno anzi mi disse che molti pazienti si facevano ricoverare in quel periodo proprio per prender il sole per poi mandare cartoline da luoghi di mare perché non si sapesse nulla del loro ricovero!
Pierina prendeva il sole senza maglietta con il reggiseno bianco a fiorellini azzurri; fu ripresa aspramente dalle infermiere che la fecero rivestire, mentre lei in dialetto brontolava che gli uomini però potevano tenere tutto da fuori che nessuno diceva nulla!! Pierina quando mi vide per la prima volta, mi chiamò bella figa e mi chiese perché stavo lì invece di correre fuori e scopare con più uomini che potessi. Se vuoi, anche qui, mi disse, ce ne sono alcuni e rise mostrando occhi celesti, un celeste innocente.
Le infermiere facevano divertire noi altre depresse chiedendole di raccontare di quando aveva fatto l’amore con il marito sulla lavatrice e di quella volta che lui l’aveva afferrata, mentre spianava la sfoglia! Pierina mimava le sue storie, condendole con parole a voce bassa, parole colorite che lasciavano le signore bene di stucco, stomacate, che guardavano le infermiere in modo aristocratico per dire: ma quando la fate smettere questa pazza? Pierina mi faceva ridere con la sua “r” alla francese e con la sua incapacità di stare ferma e zitta. Non aveva peli sulla lingua e per questo mi era simpatica.
Quando arrivò il figlio, prendeva il sole vicino ad un ombrello che le piaceva; lei parlava a voce alta chiedendogli se era pronto, le signore bene facevano finta di non sentirla; gli uomini, anche i peggio messi, la punzecchiavano laidamente.
Il figlio, che lei abbracciò rumorosamente, la strattonò severo, poi la fece rivestire e la trascinò nella stanza. Rimasero dentro. Quando uscì dalla stanza della madre il figlio parlò fitto fitto con il medico.
La mattina dopo non fui svegliata dalla voce di Pierina che, come ogni giorno, doveva urlare al medico – dottore dottoreee e allora quando usciamo insieme? quando mi porti a ballare? Dottoree.
Verso le 11 la sentii piangere debolmente, avvicinarsi alla porta trascinando lentamente i piedi e le ciabatte. Chiamava in maniera flebile Franca l’infermiera e vedendo passare il dottore disse solo imbarazzata e a voce quasi bisbigliata – ma cosa mi è successo? Mi sono trovata tutta pisciata addosso, cosa ho fatto stanotte? La rividi dopo tre giorni.
Aveva il fazzoletto in testa, gli occhi bassi, parlava solo se interrogata. Diceva sì e no due parole. Si segnava sempre con il segno della croce. Non riconobbe nessuno di noi. Franca l’infermiera, al mio sconcerto, disse che Pierina non era la prima volta che subiva il trattamento.
Quando ritornò, il figlio l’abbracciò contento e la portò in giro per il parco orgoglioso. Pierina lo seguiva a piccoli passi incerti, guardando fissa e attenta il terreno per non cadere e ogni tanto il figlio che la tirava verso il sole mentre lei si copriva gli occhi celesti offesi dalla luce.
"La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere". F. Basaglia.☺
L'elettroshock provoca la perdita della memoria, la perdita di capacità acquisite, talenti, ricordi, parte delle nostre esperienze, parte di noi stessi e non "cura" assolutamente nulla. Viene usato per chi è farmaco-resistente.
L. era mia vicina di stanza, aveva i capelli bruni e la pelle scura; assomigliava ad un indiano con quei suoi occhi profondi, grandi, che non nascondevano la tristezza incolmabile che la seguiva. Quando camminava rasente ai muri con il viso quasi schiacciato dalle spalle incurvate. Non voleva essere notata, non voleva essere vista. Non so perché mi avvicinò, forse perché le dissi che avevamo lo stesso nome forse perché le sembravo molto a posto-serena, forse perché avevo una stanza da sola con una grande poltrona in similpelle marrone, e non le sedie scomode del soggiorno comune. L. ci si sedeva, ci sprofondava, mi guardava con occhi scuri e labbra serrate, silenziosa: a volte mi raccontava della sua vita, dei suoi dolori. Aveva paura per i beni familiari che altri avrebbero diviso, data la sua fragilità, dopo la morte del marito. Era sensibile, versatile, intelligente, con una buona dose di pragmatica intelligenza che per anni aveva applicata alla gestione dell’azienda familiare.
Tutto accade, come il solito, di notte. La sera c’eravamo salutate normalmente: lei forse un po’ più triste, un po’ più scura, mi disse che sarebbe ritornata presto a casa.
Sei pronta? le risposi -mi guardò in modo inespressivo-.
Il mattino dopo non camminava rasente i muri. Non la vidi. Il pomeriggio invece era lì nel corridoio. Notai – strano è spettinata, lei che ha sempre cura di sé – poi la guardai attentamente. Si aggrappava ai muri, molto lentamente con le unghie con le palme delle mani – un passo due e si fermava, smarrita nel tempo e nello spazio. Penso che non avrebbe osato neppure valicare i tre metri di corridoio che la separavano dalla mia stanza. Andai verso di lei, la salutai. Le dissi vieni a giocare a scarabeo, la portai nel salotto comune.
Si sedette, mise quattro tasselli del gioco in mano, erano i tasselli di casa o saca o non so, ma L. non sapeva comporre nessuna parola.
Non sapeva con quattro lettere fabbricare nulla, né casa né saca ne scaa; girava e rigirava in mano penosamente le tesserine dello scarabeo, si guardava le mani dicendo scusatemi. Cominciò a sudare – disse – mi manca il respiro, devo alzarmi. L’accompagnai per il corridoio. – Ci vediamo domani, vedrai, starai meglio – le sussurrai lasciandola alla soglia della sua stanza. Mi sorrise appena, guardandomi o forse guardando oltre,
Non l’ho più vista. Era di famiglia bene che non voleva si sapesse nulla della sua malattia.
"Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (…). Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone" – (F.Basaglia).
Pierina aveva 65 anni era una contadina che faceva la perpetua presso un parroco di un paesino dell’Appennino. Arrivò come un ciclone nella villa con le statue del Canova. Era agosto inoltrato nel grande giardino della villa e ci si poteva mettere al sole a prendere la tintarella.
Qualcuno anzi mi disse che molti pazienti si facevano ricoverare in quel periodo proprio per prender il sole per poi mandare cartoline da luoghi di mare perché non si sapesse nulla del loro ricovero!
Pierina prendeva il sole senza maglietta con il reggiseno bianco a fiorellini azzurri; fu ripresa aspramente dalle infermiere che la fecero rivestire, mentre lei in dialetto brontolava che gli uomini però potevano tenere tutto da fuori che nessuno diceva nulla!! Pierina quando mi vide per la prima volta, mi chiamò bella figa e mi chiese perché stavo lì invece di correre fuori e scopare con più uomini che potessi. Se vuoi, anche qui, mi disse, ce ne sono alcuni e rise mostrando occhi celesti, un celeste innocente.
Le infermiere facevano divertire noi altre depresse chiedendole di raccontare di quando aveva fatto l’amore con il marito sulla lavatrice e di quella volta che lui l’aveva afferrata, mentre spianava la sfoglia! Pierina mimava le sue storie, condendole con parole a voce bassa, parole colorite che lasciavano le signore bene di stucco, stomacate, che guardavano le infermiere in modo aristocratico per dire: ma quando la fate smettere questa pazza? Pierina mi faceva ridere con la sua “r” alla francese e con la sua incapacità di stare ferma e zitta. Non aveva peli sulla lingua e per questo mi era simpatica.
Quando arrivò il figlio, prendeva il sole vicino ad un ombrello che le piaceva; lei parlava a voce alta chiedendogli se era pronto, le signore bene facevano finta di non sentirla; gli uomini, anche i peggio messi, la punzecchiavano laidamente.
Il figlio, che lei abbracciò rumorosamente, la strattonò severo, poi la fece rivestire e la trascinò nella stanza. Rimasero dentro. Quando uscì dalla stanza della madre il figlio parlò fitto fitto con il medico.
La mattina dopo non fui svegliata dalla voce di Pierina che, come ogni giorno, doveva urlare al medico – dottore dottoreee e allora quando usciamo insieme? quando mi porti a ballare? Dottoree.
Verso le 11 la sentii piangere debolmente, avvicinarsi alla porta trascinando lentamente i piedi e le ciabatte. Chiamava in maniera flebile Franca l’infermiera e vedendo passare il dottore disse solo imbarazzata e a voce quasi bisbigliata – ma cosa mi è successo? Mi sono trovata tutta pisciata addosso, cosa ho fatto stanotte? La rividi dopo tre giorni.
Aveva il fazzoletto in testa, gli occhi bassi, parlava solo se interrogata. Diceva sì e no due parole. Si segnava sempre con il segno della croce. Non riconobbe nessuno di noi. Franca l’infermiera, al mio sconcerto, disse che Pierina non era la prima volta che subiva il trattamento.
Quando ritornò, il figlio l’abbracciò contento e la portò in giro per il parco orgoglioso. Pierina lo seguiva a piccoli passi incerti, guardando fissa e attenta il terreno per non cadere e ogni tanto il figlio che la tirava verso il sole mentre lei si copriva gli occhi celesti offesi dalla luce.
"La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere". F. Basaglia.☺
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