È sbarcata anche a Campobasso e il territorio non potrà che beneficiarne, come succede per tutte le esperienze che vogliono essere seme di una vitalità culturale nuova.
La presentazione ufficiale della “figlia” nostrana della Scuola Italiana di Counseling Motivazionale (che ha la sua sede legale a Piacenza ma è presente anche nelle altre due sedi didattiche Genova e Ferrara) è avvenuta a Campobasso, il 14 giugno scorso, nell’aula magna del Convitto Nazionale “Mario Pagano” e ha delineato il metodo e il programma del corso di studi triennale che – se tutto andrà liscio, cioè essenzialmente se si giungerà all’iscrizione di 25 partecipanti – aprirà i battenti a settembre in Contrada Piana d’Olmo, a Sepino.
È stata Carmencita Mastroianni, direttrice della sede campobassana e animatrice di tutto l’iter che ha portato alla sua nascita, ad accogliere il pubblico in sala col microfono in mano ma senza retorica, in piedi, ad un passo dalla prima fila: parola d’ordine, accorciare le distanze. Da vera “counselor” qual è.
L’incontro, che ha avuto piuttosto il tono di una conversazione fra amici che quello un po’ paludato in cui rischiano di naufragare tanti convegni, è stato scandito in varie fasi ma – in un sapiente e alternato controcanto fra le varie voci presenti – ha spiegato in modo chiaro ed esauriente il counseling che cos’è, e quello motivazionale in che cosa consiste rispetto alla pratica e alla “definizione” generale: la Mastroianni, del NOT (Nucleo Operativo Tossicodipendenti della Prefettura UTG di Campobasso), Vitantonio Scagliusi (Presidente della Scuola Italiana di Counseling Motivazionale), Tiziana Mori (assistente sociale e counselor sistemico, di Ferrara) e Stefania Venuti (counselor professionista, genovese), hanno intessuto una serie di interventi in cui alla cornice teorica, indispensabile, si è intrecciata la propria testimonianza di vita personale e le rispettive esperienze professionali che, a partire da carriere estremamente eclettiche, li hanno portati a conoscersi, a “innamorarsi” del counseling motivazionale e a sognare l’apertura di una scuola che ne facesse una disciplina di studio autonoma.
Una professione, quella del counselor, non ancora regolamentata a livello giuridico, quindi non riconosciuta da nessun ordine o albo professionale (limite per qualcuno, per qualcun altro invece risorsa per mai spegnere la creatività e la tensione ad accreditarsi in maniera dignitosa come professionisti), ma amata e coltivata con passione e profonda consapevolezza da chi, come la Mastroianni e il suo gruppo di lavoro, sta cercando di portarla all’attenzione di un paese, l’Italia, in cui se ne fa ancora un uso limitato rispetto ad altre realtà europee e non solo.
Ma chi è e che cosa fa un counselor? Se “to counsel”, etimologicamente, vuol dire “dare consigli”, “il” counseling con i consigli non c’entra proprio nulla, anzi se ne tiene decisamente e deontologicamente lontano, in quanto il suo scopo è quello di aiutare una persona che sta attraversando un momento di temporanea crisi o difficoltà personale (per lo più, ma non esclusivamente, legata all’incapacità di operare una scelta di vita delicata per il proprio futuro) a far chiarezza dentro di sé, servendosi si alcune tecniche particolari.
Insomma, possiamo definire il counseling come “un insieme di strategie, strumenti e principi guida per condurre una relazione professionale d’aiuto in tutti gli ambiti (sanitario, educativo-scolastico, sociale psicologico, aziendale e quant’altro) in cui è necessario stimolare l’aumento della consapevolezza e della motivazione in vista di un cambiamento del comportamento, degli atteggiamenti e degli stili di vita”.
A cosa serve, in soldoni? A far emergere gradualmente e spontaneamente, all’interno del “cliente”, la risposta più giusta e più adeguata a quella situazione – al di là dell’opinione del counselor stesso, che si mantiene rigorosamente imparziale -, grazie all’attivazione di risorse in lui presenti (ma momentaneamente latenti) che sono in grado di far uscire quell’individuo dall’impasse, dall’ambivalenza, dall’inde- cisione.
Se il counseling in generale è inteso come la capacità di entrare in relazione d’aiuto con l’altro, quello motivazionale ha una sfumatura in più che lo rende, a detta degli esperti presenti in sala, assolutamente speciale nella sua efficacia: e questo valore aggiunto è il suo metodo, che si basa sul colloquio motivazionale, un vero incontro fra due persone – il counselor e il cliente – che, nell’ambito di una relazione del tutto paritaria (non c’è l’esperto che eroga sapere e l’interlocutore in posizione subordinata), mette a disposizione del cliente tutta una serie di abilità che lo accolgono, lo ascoltano nel profondo con empatia, lo accompagnano, lo orientano, e con dolce fermezza (ma soprattutto con l’obiettività che una relazione amicale non può avere per definizione e per fisiologia) lo portano ad esplorarsi per far emergere le proprie risorse e scegliere una soluzione, “la” soluzione al proprio problema: la scelta della “narrazione” e la centratura sulla persona sono due dei pilastri di questo tipo di colloquio.
Sempre che non si sia in presenza di una difficoltà di ordine patologico, naturalmente, perché laddove il counselor capisse che il cliente ha bisogno di un approccio psicoterapico, deve alzare le mani e dirigere la persona dallo specialista interessato.
Il counseling, d’altronde, nasce nei primi anni ’20 negli Usa proprio quando, nell’ambito dell’attività psicologica collegata all’orientamento e allo sviluppo personale, ci si accorge che non tutti i contesti e non tutti i problemi possono essere trattati come casi psichiatrici e “curati” come tali.
Ma c’è di più. Il counseling motivazionale è un percorso di autoconoscenza sia per il cliente sia per il counselor stesso: senza conoscersi non si può aiutare nessuno, senza avere dimestichezza con i propri vissuti, condizionamenti e meccanismi, non si può raggiungere l’imparzialità e la professionalità indispensabili ad accompagnare una persona in difficoltà, senza sapere chi si è non si può muovere nessuno all’interno di una relazione, men che meno una relazione d’aiuto. Ecco che, allora, per formarsi al counseling è necessario anche essere pronti ad esplorarsi per avviare un percorso di autoconsapevolezza propedeutico a tutto il resto. Mi conosco per aiutare a conoscerti, insomma.
Blaise Pascal diceva che “le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto piuttosto che da quelle scaturite dalla mente degli altri”. È dono dei grandi precorrere e sintetizzare. ☺
gadelis@libero.it
PER INFO: Scuola Italiana di Counseling – Sede di Campobasso Contrada Piana d’Olmo, 3 – 86017 Sepino (Cb) 347 / 8051063
www.scuoladicounseling.it
info@scuoladicounseling.it
campobasso@scuoladicounseling.it
a scuola
È sempre così. Finito l’anno scolastico ti volgi indietro e ripercorri la strada fatta e ti interroghi sui risultati ottenuti, sul tuo operato, su ciò che avresti potuto fare meglio e così via. Al di là però del programma svolto, la domanda più inquietante è: “Quali valori sono stati trasmessi, potenziati e curati in quest’anno scolastico?” Già i valori. Se ne parla tanto. Basta accendere la tivù e ti trovi a dover subire l’opinione di questo o di quel personaggio, che per il solo fatto di avere qualche notorietà, si sente in diritto di pontificare su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato. Così i valori, quelli che per intenderci consideravi assoluti, cadono sotto la mannaia del “valore sicurezza” e questo spiega perché, parlando di etnie, un alunno mi dice: “Sai, maestra ora con Berlusconi cacceremo via tutti gli immigrati che Prodi ha fatto entrare” A quel punto che fai?
Altro episodio emblematico da segnalare è quello dei viaggi d’istruzione. Da qualche tempo le scuole pubbliche si danno alle crociere o ai viaggi non alla portata di tutti, della serie c’è chi può e chi non può e chi non può si arrangi tanto io posso. Nella scuola elementare non ci siamo ancora arrivati, ma manca poco. Come insegnante fai di tutto perché le differenze non emergano e quando ciò accade ti senti impotente, superato, salvo poi a scoprire che ciò per cui hai tanto lottato diventa negoziabile e tu resti là a fare il don Chisciotte e difendi quelli che non vogliono essere difesi perché anche la dignità possa essere barattata.
Un insegnante
È sbarcata anche a Campobasso e il territorio non potrà che beneficiarne, come succede per tutte le esperienze che vogliono essere seme di una vitalità culturale nuova.
La presentazione ufficiale della “figlia” nostrana della Scuola Italiana di Counseling Motivazionale (che ha la sua sede legale a Piacenza ma è presente anche nelle altre due sedi didattiche Genova e Ferrara) è avvenuta a Campobasso, il 14 giugno scorso, nell’aula magna del Convitto Nazionale “Mario Pagano” e ha delineato il metodo e il programma del corso di studi triennale che – se tutto andrà liscio, cioè essenzialmente se si giungerà all’iscrizione di 25 partecipanti – aprirà i battenti a settembre in Contrada Piana d’Olmo, a Sepino.
È stata Carmencita Mastroianni, direttrice della sede campobassana e animatrice di tutto l’iter che ha portato alla sua nascita, ad accogliere il pubblico in sala col microfono in mano ma senza retorica, in piedi, ad un passo dalla prima fila: parola d’ordine, accorciare le distanze. Da vera “counselor” qual è.
L’incontro, che ha avuto piuttosto il tono di una conversazione fra amici che quello un po’ paludato in cui rischiano di naufragare tanti convegni, è stato scandito in varie fasi ma – in un sapiente e alternato controcanto fra le varie voci presenti – ha spiegato in modo chiaro ed esauriente il counseling che cos’è, e quello motivazionale in che cosa consiste rispetto alla pratica e alla “definizione” generale: la Mastroianni, del NOT (Nucleo Operativo Tossicodipendenti della Prefettura UTG di Campobasso), Vitantonio Scagliusi (Presidente della Scuola Italiana di Counseling Motivazionale), Tiziana Mori (assistente sociale e counselor sistemico, di Ferrara) e Stefania Venuti (counselor professionista, genovese), hanno intessuto una serie di interventi in cui alla cornice teorica, indispensabile, si è intrecciata la propria testimonianza di vita personale e le rispettive esperienze professionali che, a partire da carriere estremamente eclettiche, li hanno portati a conoscersi, a “innamorarsi” del counseling motivazionale e a sognare l’apertura di una scuola che ne facesse una disciplina di studio autonoma.
Una professione, quella del counselor, non ancora regolamentata a livello giuridico, quindi non riconosciuta da nessun ordine o albo professionale (limite per qualcuno, per qualcun altro invece risorsa per mai spegnere la creatività e la tensione ad accreditarsi in maniera dignitosa come professionisti), ma amata e coltivata con passione e profonda consapevolezza da chi, come la Mastroianni e il suo gruppo di lavoro, sta cercando di portarla all’attenzione di un paese, l’Italia, in cui se ne fa ancora un uso limitato rispetto ad altre realtà europee e non solo.
Ma chi è e che cosa fa un counselor? Se “to counsel”, etimologicamente, vuol dire “dare consigli”, “il” counseling con i consigli non c’entra proprio nulla, anzi se ne tiene decisamente e deontologicamente lontano, in quanto il suo scopo è quello di aiutare una persona che sta attraversando un momento di temporanea crisi o difficoltà personale (per lo più, ma non esclusivamente, legata all’incapacità di operare una scelta di vita delicata per il proprio futuro) a far chiarezza dentro di sé, servendosi si alcune tecniche particolari.
Insomma, possiamo definire il counseling come “un insieme di strategie, strumenti e principi guida per condurre una relazione professionale d’aiuto in tutti gli ambiti (sanitario, educativo-scolastico, sociale psicologico, aziendale e quant’altro) in cui è necessario stimolare l’aumento della consapevolezza e della motivazione in vista di un cambiamento del comportamento, degli atteggiamenti e degli stili di vita”.
A cosa serve, in soldoni? A far emergere gradualmente e spontaneamente, all’interno del “cliente”, la risposta più giusta e più adeguata a quella situazione – al di là dell’opinione del counselor stesso, che si mantiene rigorosamente imparziale -, grazie all’attivazione di risorse in lui presenti (ma momentaneamente latenti) che sono in grado di far uscire quell’individuo dall’impasse, dall’ambivalenza, dall’inde- cisione.
Se il counseling in generale è inteso come la capacità di entrare in relazione d’aiuto con l’altro, quello motivazionale ha una sfumatura in più che lo rende, a detta degli esperti presenti in sala, assolutamente speciale nella sua efficacia: e questo valore aggiunto è il suo metodo, che si basa sul colloquio motivazionale, un vero incontro fra due persone – il counselor e il cliente – che, nell’ambito di una relazione del tutto paritaria (non c’è l’esperto che eroga sapere e l’interlocutore in posizione subordinata), mette a disposizione del cliente tutta una serie di abilità che lo accolgono, lo ascoltano nel profondo con empatia, lo accompagnano, lo orientano, e con dolce fermezza (ma soprattutto con l’obiettività che una relazione amicale non può avere per definizione e per fisiologia) lo portano ad esplorarsi per far emergere le proprie risorse e scegliere una soluzione, “la” soluzione al proprio problema: la scelta della “narrazione” e la centratura sulla persona sono due dei pilastri di questo tipo di colloquio.
Sempre che non si sia in presenza di una difficoltà di ordine patologico, naturalmente, perché laddove il counselor capisse che il cliente ha bisogno di un approccio psicoterapico, deve alzare le mani e dirigere la persona dallo specialista interessato.
Il counseling, d’altronde, nasce nei primi anni ’20 negli Usa proprio quando, nell’ambito dell’attività psicologica collegata all’orientamento e allo sviluppo personale, ci si accorge che non tutti i contesti e non tutti i problemi possono essere trattati come casi psichiatrici e “curati” come tali.
Ma c’è di più. Il counseling motivazionale è un percorso di autoconoscenza sia per il cliente sia per il counselor stesso: senza conoscersi non si può aiutare nessuno, senza avere dimestichezza con i propri vissuti, condizionamenti e meccanismi, non si può raggiungere l’imparzialità e la professionalità indispensabili ad accompagnare una persona in difficoltà, senza sapere chi si è non si può muovere nessuno all’interno di una relazione, men che meno una relazione d’aiuto. Ecco che, allora, per formarsi al counseling è necessario anche essere pronti ad esplorarsi per avviare un percorso di autoconsapevolezza propedeutico a tutto il resto. Mi conosco per aiutare a conoscerti, insomma.
Blaise Pascal diceva che “le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto piuttosto che da quelle scaturite dalla mente degli altri”. È dono dei grandi precorrere e sintetizzare. ☺
gadelis@libero.it
PER INFO: Scuola Italiana di Counseling – Sede di Campobasso Contrada Piana d’Olmo, 3 – 86017 Sepino (Cb) 347 / 8051063
www.scuoladicounseling.it
info@scuoladicounseling.it
campobasso@scuoladicounseling.it
a scuola
È sempre così. Finito l’anno scolastico ti volgi indietro e ripercorri la strada fatta e ti interroghi sui risultati ottenuti, sul tuo operato, su ciò che avresti potuto fare meglio e così via. Al di là però del programma svolto, la domanda più inquietante è: “Quali valori sono stati trasmessi, potenziati e curati in quest’anno scolastico?” Già i valori. Se ne parla tanto. Basta accendere la tivù e ti trovi a dover subire l’opinione di questo o di quel personaggio, che per il solo fatto di avere qualche notorietà, si sente in diritto di pontificare su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato. Così i valori, quelli che per intenderci consideravi assoluti, cadono sotto la mannaia del “valore sicurezza” e questo spiega perché, parlando di etnie, un alunno mi dice: “Sai, maestra ora con Berlusconi cacceremo via tutti gli immigrati che Prodi ha fatto entrare” A quel punto che fai?
Altro episodio emblematico da segnalare è quello dei viaggi d’istruzione. Da qualche tempo le scuole pubbliche si danno alle crociere o ai viaggi non alla portata di tutti, della serie c’è chi può e chi non può e chi non può si arrangi tanto io posso. Nella scuola elementare non ci siamo ancora arrivati, ma manca poco. Come insegnante fai di tutto perché le differenze non emergano e quando ciò accade ti senti impotente, superato, salvo poi a scoprire che ciò per cui hai tanto lottato diventa negoziabile e tu resti là a fare il don Chisciotte e difendi quelli che non vogliono essere difesi perché anche la dignità possa essere barattata.
È sbarcata anche a Campobasso e il territorio non potrà che beneficiarne, come succede per tutte le esperienze che vogliono essere seme di una vitalità culturale nuova.
La presentazione ufficiale della “figlia” nostrana della Scuola Italiana di Counseling Motivazionale (che ha la sua sede legale a Piacenza ma è presente anche nelle altre due sedi didattiche Genova e Ferrara) è avvenuta a Campobasso, il 14 giugno scorso, nell’aula magna del Convitto Nazionale “Mario Pagano” e ha delineato il metodo e il programma del corso di studi triennale che – se tutto andrà liscio, cioè essenzialmente se si giungerà all’iscrizione di 25 partecipanti – aprirà i battenti a settembre in Contrada Piana d’Olmo, a Sepino.
È stata Carmencita Mastroianni, direttrice della sede campobassana e animatrice di tutto l’iter che ha portato alla sua nascita, ad accogliere il pubblico in sala col microfono in mano ma senza retorica, in piedi, ad un passo dalla prima fila: parola d’ordine, accorciare le distanze. Da vera “counselor” qual è.
L’incontro, che ha avuto piuttosto il tono di una conversazione fra amici che quello un po’ paludato in cui rischiano di naufragare tanti convegni, è stato scandito in varie fasi ma – in un sapiente e alternato controcanto fra le varie voci presenti – ha spiegato in modo chiaro ed esauriente il counseling che cos’è, e quello motivazionale in che cosa consiste rispetto alla pratica e alla “definizione” generale: la Mastroianni, del NOT (Nucleo Operativo Tossicodipendenti della Prefettura UTG di Campobasso), Vitantonio Scagliusi (Presidente della Scuola Italiana di Counseling Motivazionale), Tiziana Mori (assistente sociale e counselor sistemico, di Ferrara) e Stefania Venuti (counselor professionista, genovese), hanno intessuto una serie di interventi in cui alla cornice teorica, indispensabile, si è intrecciata la propria testimonianza di vita personale e le rispettive esperienze professionali che, a partire da carriere estremamente eclettiche, li hanno portati a conoscersi, a “innamorarsi” del counseling motivazionale e a sognare l’apertura di una scuola che ne facesse una disciplina di studio autonoma.
Una professione, quella del counselor, non ancora regolamentata a livello giuridico, quindi non riconosciuta da nessun ordine o albo professionale (limite per qualcuno, per qualcun altro invece risorsa per mai spegnere la creatività e la tensione ad accreditarsi in maniera dignitosa come professionisti), ma amata e coltivata con passione e profonda consapevolezza da chi, come la Mastroianni e il suo gruppo di lavoro, sta cercando di portarla all’attenzione di un paese, l’Italia, in cui se ne fa ancora un uso limitato rispetto ad altre realtà europee e non solo.
Ma chi è e che cosa fa un counselor? Se “to counsel”, etimologicamente, vuol dire “dare consigli”, “il” counseling con i consigli non c’entra proprio nulla, anzi se ne tiene decisamente e deontologicamente lontano, in quanto il suo scopo è quello di aiutare una persona che sta attraversando un momento di temporanea crisi o difficoltà personale (per lo più, ma non esclusivamente, legata all’incapacità di operare una scelta di vita delicata per il proprio futuro) a far chiarezza dentro di sé, servendosi si alcune tecniche particolari.
Insomma, possiamo definire il counseling come “un insieme di strategie, strumenti e principi guida per condurre una relazione professionale d’aiuto in tutti gli ambiti (sanitario, educativo-scolastico, sociale psicologico, aziendale e quant’altro) in cui è necessario stimolare l’aumento della consapevolezza e della motivazione in vista di un cambiamento del comportamento, degli atteggiamenti e degli stili di vita”.
A cosa serve, in soldoni? A far emergere gradualmente e spontaneamente, all’interno del “cliente”, la risposta più giusta e più adeguata a quella situazione – al di là dell’opinione del counselor stesso, che si mantiene rigorosamente imparziale -, grazie all’attivazione di risorse in lui presenti (ma momentaneamente latenti) che sono in grado di far uscire quell’individuo dall’impasse, dall’ambivalenza, dall’inde- cisione.
Se il counseling in generale è inteso come la capacità di entrare in relazione d’aiuto con l’altro, quello motivazionale ha una sfumatura in più che lo rende, a detta degli esperti presenti in sala, assolutamente speciale nella sua efficacia: e questo valore aggiunto è il suo metodo, che si basa sul colloquio motivazionale, un vero incontro fra due persone – il counselor e il cliente – che, nell’ambito di una relazione del tutto paritaria (non c’è l’esperto che eroga sapere e l’interlocutore in posizione subordinata), mette a disposizione del cliente tutta una serie di abilità che lo accolgono, lo ascoltano nel profondo con empatia, lo accompagnano, lo orientano, e con dolce fermezza (ma soprattutto con l’obiettività che una relazione amicale non può avere per definizione e per fisiologia) lo portano ad esplorarsi per far emergere le proprie risorse e scegliere una soluzione, “la” soluzione al proprio problema: la scelta della “narrazione” e la centratura sulla persona sono due dei pilastri di questo tipo di colloquio.
Sempre che non si sia in presenza di una difficoltà di ordine patologico, naturalmente, perché laddove il counselor capisse che il cliente ha bisogno di un approccio psicoterapico, deve alzare le mani e dirigere la persona dallo specialista interessato.
Il counseling, d’altronde, nasce nei primi anni ’20 negli Usa proprio quando, nell’ambito dell’attività psicologica collegata all’orientamento e allo sviluppo personale, ci si accorge che non tutti i contesti e non tutti i problemi possono essere trattati come casi psichiatrici e “curati” come tali.
Ma c’è di più. Il counseling motivazionale è un percorso di autoconoscenza sia per il cliente sia per il counselor stesso: senza conoscersi non si può aiutare nessuno, senza avere dimestichezza con i propri vissuti, condizionamenti e meccanismi, non si può raggiungere l’imparzialità e la professionalità indispensabili ad accompagnare una persona in difficoltà, senza sapere chi si è non si può muovere nessuno all’interno di una relazione, men che meno una relazione d’aiuto. Ecco che, allora, per formarsi al counseling è necessario anche essere pronti ad esplorarsi per avviare un percorso di autoconsapevolezza propedeutico a tutto il resto. Mi conosco per aiutare a conoscerti, insomma.
Blaise Pascal diceva che “le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto piuttosto che da quelle scaturite dalla mente degli altri”. È dono dei grandi precorrere e sintetizzare. ☺
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PER INFO: Scuola Italiana di Counseling – Sede di Campobasso Contrada Piana d’Olmo, 3 – 86017 Sepino (Cb) 347 / 8051063
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campobasso@scuoladicounseling.it
a scuola
È sempre così. Finito l’anno scolastico ti volgi indietro e ripercorri la strada fatta e ti interroghi sui risultati ottenuti, sul tuo operato, su ciò che avresti potuto fare meglio e così via. Al di là però del programma svolto, la domanda più inquietante è: “Quali valori sono stati trasmessi, potenziati e curati in quest’anno scolastico?” Già i valori. Se ne parla tanto. Basta accendere la tivù e ti trovi a dover subire l’opinione di questo o di quel personaggio, che per il solo fatto di avere qualche notorietà, si sente in diritto di pontificare su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato. Così i valori, quelli che per intenderci consideravi assoluti, cadono sotto la mannaia del “valore sicurezza” e questo spiega perché, parlando di etnie, un alunno mi dice: “Sai, maestra ora con Berlusconi cacceremo via tutti gli immigrati che Prodi ha fatto entrare” A quel punto che fai?
Altro episodio emblematico da segnalare è quello dei viaggi d’istruzione. Da qualche tempo le scuole pubbliche si danno alle crociere o ai viaggi non alla portata di tutti, della serie c’è chi può e chi non può e chi non può si arrangi tanto io posso. Nella scuola elementare non ci siamo ancora arrivati, ma manca poco. Come insegnante fai di tutto perché le differenze non emergano e quando ciò accade ti senti impotente, superato, salvo poi a scoprire che ciò per cui hai tanto lottato diventa negoziabile e tu resti là a fare il don Chisciotte e difendi quelli che non vogliono essere difesi perché anche la dignità possa essere barattata.
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