
Faticare per il pane
Breadwinner [pronuncia: brèd-uinner] è un vocabolo inglese appartenente al lessico specifico di una disciplina – sociologia in questo caso – che in italiano si preferisce utilizzare perché esauriente e preciso nella sua sinteticità. Dello stesso tenore, ad esempio, è il termine caregiver [pronuncia: chèr-ghiver], ormai diventato comune, che serve ad indicare, in campo socio-sanitario, coloro che si prendono cura delle “persone in difficoltà” nei settori più disparati.
Il termine breadwinner è composto da due sostantivi, certamente noti se presi singolarmente; la particolarità della parola invece credo abbia bisogno di qualche precisazione. Bread [pronuncia: brèd] che traduce letteralmente “pane” rimanda qui al suo significato che va oltre l’alimento in sé: per “pane” si intende il sostentamento di una persona o più persone, tutto ciò che concerne e favorisce la possibilità di condurre l’esistenza; winner [pronuncia: uinner], poi, è il sostantivo derivante dal verbo win [pronuncia: uin], che significa ‘vincere’, e che per estensione indica colui/colei che riesce ad ottenere/guadagnare il pane. Relativamente a questo secondo vocabolo, vorrei richiamare una espressione – del mondo anglosassone – che credo per molti sia nota, ricorrente nel corso di cerimonie di premiazione di concorsi o gare: “The winner is”, letteralmente “Il vincitore/la vincitrice è”, seguìta da proclamazione, applausi, congratulazioni, e relativa consegna del premio.
Di tono decisamente dimesso e più serio, invece, è il valore semantico del vocabolo su cui ci stiamo soffermando. Secondo la definizione del dizionario, breadwinner è il componente di una famiglia che guadagna i soldi necessari per vivere. Non automaticamente il capofamiglia, né necessariamente un uomo! In inglese molti vocaboli – fortunatamente (!) – restano di genere neutro e superano quindi anche le barriere del tempo e della storia, se consideriamo che al giorno d’oggi non tutte le famiglie sono “rette” da un uomo che con il suo salario sostenta tutto il nucleo, anzi in molti casi sono le donne che lavorano o che “reggono” tutta la famiglia in assenza di partner maschili.
Storicamente breadwinner è una parola che ha fatto la sua comparsa nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, negli anni venti del XIX secolo: erano gli anni dello sviluppo e della proliferazione delle fabbriche in tutto il Paese, periodo di sconvolgimento e di crescita economica che ha però comportato ferite, fatica e stravolgimento dello stile di vita di molte persone, gli appartenenti alle classi sociali più basse. Le industrie che sono sorte in quegli anni impiegavano centinaia di operai, sia uomini che donne – quando non i bambini! – e quindi tra coloro che percepivano un salario esistevano certamente persone con a carico un nucleo familiare e che probabilmente erano le uniche che godevano di un reddito la cui funzione si risolveva nel dare da mangiare ai figli.
“I ricchi non sanno nulla degli sforzi dei poveri; se non lo sanno, devono saperlo. Siamo i loro schiavi finché possiamo lavorare; accumuliamo le loro fortune con il sudore della nostra fronte, eppure dobbiamo vivere separati come se fossimo in due mondi; come il ricco e Lazzaro”. Queste le parole che una scrittrice inglese dell’Ottocento fa dire ad un suo personaggio, nel romanzo Mary Barton. Attraverso la sua narrativa Elizabeth Gaskell – come anche altri autori (e autrici) coevi – ha rappresentato, per il suo tempo, una denuncia delle misere condizioni di vita di una società, quella britannica del periodo vittoriano, che per certi versi non si discosta molto dall’attuale, e non solo oltremanica. Se la lotta per un lavoro dignitoso, con tu- tele e diritti rispettati, ha impiegato decenni ad affermarsi e raggiungere traguardi positivi, nel nostro tempo assistiamo, impotenti, ad un arretramento: “dal 1990 a oggi il lavoro salariato è sempre più precario e sempre di più non garantisce ad ampie fasce della popolazione di cacciare su la testa e liberarsi dal fango della povertà” (Francesco Sciotto, Riforma n. 47, 2022). In Italia sempre più persone sono spinte verso la soglia della povertà “per finire inesorabilmente al di fuori del mondo dei diritti e delle opportunità. Si tratta in particolare dei giovani della fascia di età compresa tra i 16 e i 34 anni, delle donne, più esposte al lavoro part-time, degli abitanti del sud del Paese, dove in aggiunta è sempre più difficile avere accesso a diritti e servizi”.
Quel che maggiormente sorprende, dai dati che ci vengono forniti dagli esperti, è che aumenta il numero di coloro che, pur avendo un lavoro (!), sono poveri: come ha sostenuto recentemente il sociologo Marco Revelli, riferendosi ad un rapporto della “Commissione povertà” del 2010, “una parte non marginale di quell’esercito di poveri assoluti era composta da lavoratori, da famiglie il cui breadwinner, colui che porta il pane a casa, era un operaio “o assimilato”. E anche questo era uno choc perché, nel Novecento fordista, chi aveva un lavoro non era povero, e chi era povero non aveva un lavoro. Ora, invece, quella legge veniva infranta. Si era poveri – anche assolutamente poveri – lavorando”.☺