femminicidio
2 Marzo 2011 Share

femminicidio

 

“Per molte donne africane la parola più difficile da scrivere è futuro”. Questo recente slogan televisivo ha richiamato alla mia mente un triste fenomeno – il femminicidio – di cui avevo letto qualche tempo fa.

             Il termine “femminicidio” è nato in occasione della strage delle donne di Ciudad Juarez, città messicana, tra le più colpite da mortalità violenta femminile; ma altri casi analoghi si registrano in Perù, Guatemala, Brasile.

             La parola è un neologismo con il quale si indica ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna “in quanto donna”. È la violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale. È l’esercizio di potere che l’uomo e la società esercitano sulla donna affinché il suo comportamento risponda alle aspettative tanto dell’uomo quanto della società patriarcale in cui vivono. È la violenza esercitata nei confronti della donna che disattende le loro aspettative. È la punizione quotidiana per ogni donna che non accetta il ruolo sociale impostole.

Da qualche anno, il percorso di riconoscimento del femminicidio come crimine contro l’umanità è stato preso in considerazione anche a livello europeo, soprattutto in seguito alle denunce esposte da alcune donne della città e dei Paesi sopra menzionati. Le denunce avvengono perché le donne non si sentono protette, al pari degli uomini, dalla legge. Le donne messicane, non avendo ottenuto per anni l’ascolto delle autorità, sono entrate nel circuito dell’informazione internazionale e sperano che la polizia, quando esse denunciano la scomparsa di una ragazza, non resti passiva; il più delle volte la scomparsa veniva attribuita a fuga d’amore o al passaggio di frontiera per andare alla ricerca di lavoro. Una volta trovati i cadaveri non si riusciva a scoprire la causa della morte: la vittima poteva essere stata uccisa da uno stupratore, da un parente irato, o poteva anche essere morta a causa di un aborto sbagliato. Il femminicidio, questa pratica così crudele, così atroce, avviene per mano di amici, conoscenti, mariti, amanti, ex, parenti che spesso la famiglia copre. Anche quando non si arriva al femminicidio, è in famiglia che le donne di tutti i Paesi del mondo vengono offese, picchiate, violentate da mariti, padri, fratelli.

Troppe donne subiscono!

Ma la violenza in ambito familiare, pur essendo una realtà statisticamente provata, non salta immediatamente agli occhi come tale perché si parla di stupri, violenze, incesto. È necessario invece parlare di femminicidio per infrangere un tabù ed affrontare seriamente il problema, una vera e propria piaga sociale: la donna viene uccisa in quanto donna o perché non è la donna che l’uomo e la società vorrebbero che fosse. In qualsiasi forma venga esercitata, la violenza rappresenta sempre l’esercizio di un potere che tende a negare la personalità della donna: brutalizzando il suo corpo o la sua anima si afferma il dominio su di essa, rendendola oggetto di potere, privandola della sua soggettività.

E non subiscono, come le donne messicane, quelle dell’Afghanistan che vengono frustate se sono state violentate, a meno che i parenti non le abbiano già uccise per il disonore? Un padre può uccidere una figlia se questa non si comporta come vuole la legge islamica? Nell’Islam, del resto, una donna vale la metà di un uomo!

Nel mondo ci sono donne innamorate e amate, ed altre respinte; donne che si addormentano su un letto di piume e altre che si svegliano dentro il peggior motel; casalinghe e donne con la 24 ore; donne che stringono due manine e altre che curano una ruga; quelle costrette a guardare il mondo attraverso la rete del burqa e quelle in décolleté; quelle spregiudicate e quelle “infibulate”; donne stimate e donne che “ingoiano sempre il rospo”…

A tutte tanti auguri affinché possano ricevere fiori ogni giorno e non solo una semplice mimosa l’8 marzo! ☺

nicolina.montagano@gmail.com

 

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