“Guarda come si erge candido / d’alta neve il Soratte! I boschi al peso / non reggono, fiaccati, e per l’acuto / gelo si sono rappresi i fiumi.”
Orazio, Odi, libro primo, carme nono: l’incipit poetico che più mi dà i brividi. Poi, la lenta, necessaria, rasserenante discesa, giù giù fino all’uomo, accoccolato nella sua casa. Che ponga abbondante la legna sul fuoco, per combattere il freddo, e versi vino, senza angustiarsi al pensiero del domani, dominio imperscrutabile degli dèi. Questo l’invito di Orazio. Permitte divis cetera, “lascia il resto agli dèi”, ultimi arbitri del nostro destino e soli in grado di ribaltare le sorti della natura tutta.
La scorsa estate per la prima volta ho visto il Soratte ed è stata un’emozione fortissima. Non per il Soratte in sé, meglio le Mainarde, il cui maestoso profilo mi rapisce sguardo e mente negli affannosi ma piacevolissimi a piedi su e giù da Campobasso a Ferrazzano; solo, a scorgere il Soratte, ho riletto a memoria l’ode di Orazio, e ripercorso gli affetti che sempre mi suscita. Non è questione di oggetti che descrive la poesia, possono ben mutare quelli; piuttosto importa la sua capacità di coinvolgerci, riconoscerci anzi, nelle intuizioni che veicola, la sua attitudine a mettere in moto il nostro pensiero. “Le mystère du poète, c’est aussi mon propre mystère, plus riche, sans doute, mais par la même un peu moins oscure”(“Il mistero del poeta è anche il mio proprio mistero, più ricco senza dubbio ma ugualmente un po’ meno oscuro”), scriveva Henry Bremond.
È un classico contemporaneo Orazio, e la sua poesia appassiona e fa riflettere, anche ora: emozionante, mai patetica, soffusa di malinconia, mai lamentosa, attraversata da una saggezza rassegnata ma robusta, sostenuta da un senso dell’amicizia “tenero”, cosicché la consapevolezza di una comune infausta sorte degli uomini, da condizione reale diventa qualità soave dell’animo; e l’eleganza, lo stile asciutto e melodioso insieme, le parole insostituibili, i nessi sintattici imprevedibili, eppure naturali. Una poesia “fulminea”, ansiosa e tranquillizzante, disperata e serena.
Melancholicus, definiva il poeta un antico scoliasta, afflitto, cioè, dalla malattia psichica dell’“umor tetro”. Ce lo dice Orazio stesso, in una delle sue Epistole (1,11): “strenua nos exercet inertia”,“ci fa soffrire un torpore smanioso”; che non è solo ardito abbinamento di opposti, ma descrizione di una patologia dell’animo: gli psicologi moderni la chiamerebbero “depressione ansiosa”. “Non sai stare un’ora con te stesso, ma fuggi da te, cercando di eludere l’ansia col vino o col sonno: invano, ché essa, nera compagna, ti sta sempre alle costole”, si fa dire Orazio dal servo Davo, eletto per l’occasione a voce della sua coscienza (Satire, 2, 7).
Atra cura,“nera compagna”. L’aggettivo ater, “nero”, “scuro”, ha una folta presenza lessicale nell’opera di Orazio, con chiaro rimando alla morte, pensiero refrain del poeta. Così, per esempio, Orazio scrive nel carme quarto del libro primo delle Odi: “Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas / regumque turres”, “La Morte pallida batte con uguale tocco alle capanne dei poveri e alle torri dei re”. L’inevitabile livella dell’impareggiabile Totò, insomma.
Ed è il senso di morte che rende struggente il sapore della vita, soprattutto laddove Orazio confronta la circolarità del tempo cosmico, che si ripete e si rinnova, con la linearità del tempo umano necessariamente limitato. Il carme settimo del libro quarto delle Odi recita: “Diffugere nives, redeunt iam gramina campis, / arboribusque comae”, “La neve è dileguata, torna già l’erba ai campi, la chioma agli alberi”; e subito dopo: “Nos ubi decidimus / quo Pius Aeneas, quo Tullius dive et Ancus, / pulvis e umbra sumus”, “noi quando scendiamo dove Enea padre scese e il ricco Tullio ed Anco / polvere siamo e siamo”. Sanzione dolorosa e definitiva.
Con quello della morte, assillante, il pensiero del tempo, che si consuma rapido: la rassicurante ciclicità della natura si contrae nella breve frazione di ogni vita umana (brevis è altro aggettivo frequente in Orazio) e l’idea della morte, ultima linea rerum, trasmette l’angoscia del tempo.“Ehu fugaces, Postume, labuntur anni”, “Scendono in fuga gli anni, Postumo”, esclama Orazio, sempre nelle Odi (e Seneca, erede del senso e del lessico orazioni del tempo, nel de brevitate vitae userà il medesimo verbo, “scivolare”, per definire l’ingannevole velocità del tempo: “Il tempo non darà segno della sua velocità, scivolerà via senza rumore”, “tacita labetur”).
L’uomo, dunque, non è arbitro del suo domani, e la sua vita è comunque breve: non gli rimane che corroderla e gustarla, quasi sfogliandola, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, nell’imminenza del “qui ed ora”, nell’attualità del presente. Uno studioso di Orazio ha scritto che il poeta venosino si ricollega ad una famiglia di spiriti per i quali il luogo autentico dell’uomo non è la continuità della durata, ma la singolarità degli istanti dove la nostra libertà affronta il mondo: una perifrasi del più celebre motivo oraziano, tanto celebre da aver meritato la vita autonoma della citazione, il carpe diem (di nuovo siamo alle Odi, 1,11). Un verbo quasi violento carpere, più che “cogliere”, “strappare”, incisivo come il rapere, “rapire” proprio, che nell’Epodo tredicesimo descrive ancora una volta la premura di appropriarsi del tempo, che mai più torna indietro: “rapiamus, amici, occasionem de die”, “rapiamo, o amici, l’occasione alla giornata”. Risonanza piena dei singoli vocaboli, suonati da una corda lirica che
vibra sempre da vicino.
Angustia ansiosa, ossessione della morte, percezione dell’urgenza schiacciante del tempo. Pure, la poesia di Orazio non è cupa e tetra, emana anzi la luce, il nitore dell’armonia, e non solo per la sua perfetta confezione formale; è che di fronte alle pungenti angosce che lo tormentano, Orazio trova per sé ed offre agli uomini di ogni tempo validi motivi di riscatto. L’amicizia, l’amore, il vino, il piccolo podere di campagna da godere nell’ozio, la lettura degli autori amati, tutto all’insegna della semplicità del gusto e del modus, la misura.
Una lirica breve e graziosissima posta a congedo del libro primo delle Odi esprime il cuore di questa saggezza di Orazio; recita: “Non amo, ragazzo, il lusso dei Persiani, non mi piacciono corone intrecciate di tiglio: smetti di cercare in quale luogo indugi la rosa tardiva. Mi basta il mirto. Il mirto va bene a te che mesci e a me che bevo sotto una stretta pergola”.
La serenità è semplice e prossima: è questo il senso del modus, del limite che l’uomo deve sapersi imporre per godere davvero la vita. “Vivitur parvo bene”, “si vive bene con poco”, dice Orazio, se ci si rifiuta di “saettare” desideri nella lontananza del tempo e dello spazio: “Quid brevi fortes iaculamur aevo / multa? Quid terras alio calientis sole / mutamus?”, “Siamo forti e caduchi, perché saettiamo lontano tante mire? Perché cerchiamo terre scaldate da un altro sole?”.
Bersagliati come siamo da desideri che il più spesso scopriamo vani, distolti dalla semplice essenza della serenità, dovremmo far tesoro della lezione di sobrietà impartitaci da Orazio. ☺
LucianaZingaro@libero.it
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes, geluque
flumina consiuterint acuto.
“Guarda come si erge candido / d’alta neve il Soratte! I boschi al peso / non reggono, fiaccati, e per l’acuto / gelo si sono rappresi i fiumi.”
Orazio, Odi, libro primo, carme nono: l’incipit poetico che più mi dà i brividi. Poi, la lenta, necessaria, rasserenante discesa, giù giù fino all’uomo, accoccolato nella sua casa. Che ponga abbondante la legna sul fuoco, per combattere il freddo, e versi vino, senza angustiarsi al pensiero del domani, dominio imperscrutabile degli dèi. Questo l’invito di Orazio. Permitte divis cetera, “lascia il resto agli dèi”, ultimi arbitri del nostro destino e soli in grado di ribaltare le sorti della natura tutta.
La scorsa estate per la prima volta ho visto il Soratte ed è stata un’emozione fortissima. Non per il Soratte in sé, meglio le Mainarde, il cui maestoso profilo mi rapisce sguardo e mente negli affannosi ma piacevolissimi a piedi su e giù da Campobasso a Ferrazzano; solo, a scorgere il Soratte, ho riletto a memoria l’ode di Orazio, e ripercorso gli affetti che sempre mi suscita. Non è questione di oggetti che descrive la poesia, possono ben mutare quelli; piuttosto importa la sua capacità di coinvolgerci, riconoscerci anzi, nelle intuizioni che veicola, la sua attitudine a mettere in moto il nostro pensiero. “Le mystère du poète, c’est aussi mon propre mystère, plus riche, sans doute, mais par la même un peu moins oscure”(“Il mistero del poeta è anche il mio proprio mistero, più ricco senza dubbio ma ugualmente un po’ meno oscuro”), scriveva Henry Bremond.
È un classico contemporaneo Orazio, e la sua poesia appassiona e fa riflettere, anche ora: emozionante, mai patetica, soffusa di malinconia, mai lamentosa, attraversata da una saggezza rassegnata ma robusta, sostenuta da un senso dell’amicizia “tenero”, cosicché la consapevolezza di una comune infausta sorte degli uomini, da condizione reale diventa qualità soave dell’animo; e l’eleganza, lo stile asciutto e melodioso insieme, le parole insostituibili, i nessi sintattici imprevedibili, eppure naturali. Una poesia “fulminea”, ansiosa e tranquillizzante, disperata e serena.
Melancholicus, definiva il poeta un antico scoliasta, afflitto, cioè, dalla malattia psichica dell’“umor tetro”. Ce lo dice Orazio stesso, in una delle sue Epistole (1,11): “strenua nos exercet inertia”,“ci fa soffrire un torpore smanioso”; che non è solo ardito abbinamento di opposti, ma descrizione di una patologia dell’animo: gli psicologi moderni la chiamerebbero “depressione ansiosa”. “Non sai stare un’ora con te stesso, ma fuggi da te, cercando di eludere l’ansia col vino o col sonno: invano, ché essa, nera compagna, ti sta sempre alle costole”, si fa dire Orazio dal servo Davo, eletto per l’occasione a voce della sua coscienza (Satire, 2, 7).
Atra cura,“nera compagna”. L’aggettivo ater, “nero”, “scuro”, ha una folta presenza lessicale nell’opera di Orazio, con chiaro rimando alla morte, pensiero refrain del poeta. Così, per esempio, Orazio scrive nel carme quarto del libro primo delle Odi: “Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas / regumque turres”, “La Morte pallida batte con uguale tocco alle capanne dei poveri e alle torri dei re”. L’inevitabile livella dell’impareggiabile Totò, insomma.
Ed è il senso di morte che rende struggente il sapore della vita, soprattutto laddove Orazio confronta la circolarità del tempo cosmico, che si ripete e si rinnova, con la linearità del tempo umano necessariamente limitato. Il carme settimo del libro quarto delle Odi recita: “Diffugere nives, redeunt iam gramina campis, / arboribusque comae”, “La neve è dileguata, torna già l’erba ai campi, la chioma agli alberi”; e subito dopo: “Nos ubi decidimus / quo Pius Aeneas, quo Tullius dive et Ancus, / pulvis e umbra sumus”, “noi quando scendiamo dove Enea padre scese e il ricco Tullio ed Anco / polvere siamo e siamo”. Sanzione dolorosa e definitiva.
Con quello della morte, assillante, il pensiero del tempo, che si consuma rapido: la rassicurante ciclicità della natura si contrae nella breve frazione di ogni vita umana (brevis è altro aggettivo frequente in Orazio) e l’idea della morte, ultima linea rerum, trasmette l’angoscia del tempo.“Ehu fugaces, Postume, labuntur anni”, “Scendono in fuga gli anni, Postumo”, esclama Orazio, sempre nelle Odi (e Seneca, erede del senso e del lessico orazioni del tempo, nel de brevitate vitae userà il medesimo verbo, “scivolare”, per definire l’ingannevole velocità del tempo: “Il tempo non darà segno della sua velocità, scivolerà via senza rumore”, “tacita labetur”).
L’uomo, dunque, non è arbitro del suo domani, e la sua vita è comunque breve: non gli rimane che corroderla e gustarla, quasi sfogliandola, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, nell’imminenza del “qui ed ora”, nell’attualità del presente. Uno studioso di Orazio ha scritto che il poeta venosino si ricollega ad una famiglia di spiriti per i quali il luogo autentico dell’uomo non è la continuità della durata, ma la singolarità degli istanti dove la nostra libertà affronta il mondo: una perifrasi del più celebre motivo oraziano, tanto celebre da aver meritato la vita autonoma della citazione, il carpe diem (di nuovo siamo alle Odi, 1,11). Un verbo quasi violento carpere, più che “cogliere”, “strappare”, incisivo come il rapere, “rapire” proprio, che nell’Epodo tredicesimo descrive ancora una volta la premura di appropriarsi del tempo, che mai più torna indietro: “rapiamus, amici, occasionem de die”, “rapiamo, o amici, l’occasione alla giornata”. Risonanza piena dei singoli vocaboli, suonati da una corda lirica che
vibra sempre da vicino.
Angustia ansiosa, ossessione della morte, percezione dell’urgenza schiacciante del tempo. Pure, la poesia di Orazio non è cupa e tetra, emana anzi la luce, il nitore dell’armonia, e non solo per la sua perfetta confezione formale; è che di fronte alle pungenti angosce che lo tormentano, Orazio trova per sé ed offre agli uomini di ogni tempo validi motivi di riscatto. L’amicizia, l’amore, il vino, il piccolo podere di campagna da godere nell’ozio, la lettura degli autori amati, tutto all’insegna della semplicità del gusto e del modus, la misura.
Una lirica breve e graziosissima posta a congedo del libro primo delle Odi esprime il cuore di questa saggezza di Orazio; recita: “Non amo, ragazzo, il lusso dei Persiani, non mi piacciono corone intrecciate di tiglio: smetti di cercare in quale luogo indugi la rosa tardiva. Mi basta il mirto. Il mirto va bene a te che mesci e a me che bevo sotto una stretta pergola”.
La serenità è semplice e prossima: è questo il senso del modus, del limite che l’uomo deve sapersi imporre per godere davvero la vita. “Vivitur parvo bene”, “si vive bene con poco”, dice Orazio, se ci si rifiuta di “saettare” desideri nella lontananza del tempo e dello spazio: “Quid brevi fortes iaculamur aevo / multa? Quid terras alio calientis sole / mutamus?”, “Siamo forti e caduchi, perché saettiamo lontano tante mire? Perché cerchiamo terre scaldate da un altro sole?”.
Bersagliati come siamo da desideri che il più spesso scopriamo vani, distolti dalla semplice essenza della serenità, dovremmo far tesoro della lezione di sobrietà impartitaci da Orazio. ☺
“Guarda come si erge candido / d’alta neve il Soratte! I boschi al peso / non reggono, fiaccati, e per l’acuto / gelo si sono rappresi i fiumi.”
Orazio, Odi, libro primo, carme nono: l’incipit poetico che più mi dà i brividi. Poi, la lenta, necessaria, rasserenante discesa, giù giù fino all’uomo, accoccolato nella sua casa. Che ponga abbondante la legna sul fuoco, per combattere il freddo, e versi vino, senza angustiarsi al pensiero del domani, dominio imperscrutabile degli dèi. Questo l’invito di Orazio. Permitte divis cetera, “lascia il resto agli dèi”, ultimi arbitri del nostro destino e soli in grado di ribaltare le sorti della natura tutta.
La scorsa estate per la prima volta ho visto il Soratte ed è stata un’emozione fortissima. Non per il Soratte in sé, meglio le Mainarde, il cui maestoso profilo mi rapisce sguardo e mente negli affannosi ma piacevolissimi a piedi su e giù da Campobasso a Ferrazzano; solo, a scorgere il Soratte, ho riletto a memoria l’ode di Orazio, e ripercorso gli affetti che sempre mi suscita. Non è questione di oggetti che descrive la poesia, possono ben mutare quelli; piuttosto importa la sua capacità di coinvolgerci, riconoscerci anzi, nelle intuizioni che veicola, la sua attitudine a mettere in moto il nostro pensiero. “Le mystère du poète, c’est aussi mon propre mystère, plus riche, sans doute, mais par la même un peu moins oscure”(“Il mistero del poeta è anche il mio proprio mistero, più ricco senza dubbio ma ugualmente un po’ meno oscuro”), scriveva Henry Bremond.
È un classico contemporaneo Orazio, e la sua poesia appassiona e fa riflettere, anche ora: emozionante, mai patetica, soffusa di malinconia, mai lamentosa, attraversata da una saggezza rassegnata ma robusta, sostenuta da un senso dell’amicizia “tenero”, cosicché la consapevolezza di una comune infausta sorte degli uomini, da condizione reale diventa qualità soave dell’animo; e l’eleganza, lo stile asciutto e melodioso insieme, le parole insostituibili, i nessi sintattici imprevedibili, eppure naturali. Una poesia “fulminea”, ansiosa e tranquillizzante, disperata e serena.
Melancholicus, definiva il poeta un antico scoliasta, afflitto, cioè, dalla malattia psichica dell’“umor tetro”. Ce lo dice Orazio stesso, in una delle sue Epistole (1,11): “strenua nos exercet inertia”,“ci fa soffrire un torpore smanioso”; che non è solo ardito abbinamento di opposti, ma descrizione di una patologia dell’animo: gli psicologi moderni la chiamerebbero “depressione ansiosa”. “Non sai stare un’ora con te stesso, ma fuggi da te, cercando di eludere l’ansia col vino o col sonno: invano, ché essa, nera compagna, ti sta sempre alle costole”, si fa dire Orazio dal servo Davo, eletto per l’occasione a voce della sua coscienza (Satire, 2, 7).
Atra cura,“nera compagna”. L’aggettivo ater, “nero”, “scuro”, ha una folta presenza lessicale nell’opera di Orazio, con chiaro rimando alla morte, pensiero refrain del poeta. Così, per esempio, Orazio scrive nel carme quarto del libro primo delle Odi: “Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas / regumque turres”, “La Morte pallida batte con uguale tocco alle capanne dei poveri e alle torri dei re”. L’inevitabile livella dell’impareggiabile Totò, insomma.
Ed è il senso di morte che rende struggente il sapore della vita, soprattutto laddove Orazio confronta la circolarità del tempo cosmico, che si ripete e si rinnova, con la linearità del tempo umano necessariamente limitato. Il carme settimo del libro quarto delle Odi recita: “Diffugere nives, redeunt iam gramina campis, / arboribusque comae”, “La neve è dileguata, torna già l’erba ai campi, la chioma agli alberi”; e subito dopo: “Nos ubi decidimus / quo Pius Aeneas, quo Tullius dive et Ancus, / pulvis e umbra sumus”, “noi quando scendiamo dove Enea padre scese e il ricco Tullio ed Anco / polvere siamo e siamo”. Sanzione dolorosa e definitiva.
Con quello della morte, assillante, il pensiero del tempo, che si consuma rapido: la rassicurante ciclicità della natura si contrae nella breve frazione di ogni vita umana (brevis è altro aggettivo frequente in Orazio) e l’idea della morte, ultima linea rerum, trasmette l’angoscia del tempo.“Ehu fugaces, Postume, labuntur anni”, “Scendono in fuga gli anni, Postumo”, esclama Orazio, sempre nelle Odi (e Seneca, erede del senso e del lessico orazioni del tempo, nel de brevitate vitae userà il medesimo verbo, “scivolare”, per definire l’ingannevole velocità del tempo: “Il tempo non darà segno della sua velocità, scivolerà via senza rumore”, “tacita labetur”).
L’uomo, dunque, non è arbitro del suo domani, e la sua vita è comunque breve: non gli rimane che corroderla e gustarla, quasi sfogliandola, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, nell’imminenza del “qui ed ora”, nell’attualità del presente. Uno studioso di Orazio ha scritto che il poeta venosino si ricollega ad una famiglia di spiriti per i quali il luogo autentico dell’uomo non è la continuità della durata, ma la singolarità degli istanti dove la nostra libertà affronta il mondo: una perifrasi del più celebre motivo oraziano, tanto celebre da aver meritato la vita autonoma della citazione, il carpe diem (di nuovo siamo alle Odi, 1,11). Un verbo quasi violento carpere, più che “cogliere”, “strappare”, incisivo come il rapere, “rapire” proprio, che nell’Epodo tredicesimo descrive ancora una volta la premura di appropriarsi del tempo, che mai più torna indietro: “rapiamus, amici, occasionem de die”, “rapiamo, o amici, l’occasione alla giornata”. Risonanza piena dei singoli vocaboli, suonati da una corda lirica che
vibra sempre da vicino.
Angustia ansiosa, ossessione della morte, percezione dell’urgenza schiacciante del tempo. Pure, la poesia di Orazio non è cupa e tetra, emana anzi la luce, il nitore dell’armonia, e non solo per la sua perfetta confezione formale; è che di fronte alle pungenti angosce che lo tormentano, Orazio trova per sé ed offre agli uomini di ogni tempo validi motivi di riscatto. L’amicizia, l’amore, il vino, il piccolo podere di campagna da godere nell’ozio, la lettura degli autori amati, tutto all’insegna della semplicità del gusto e del modus, la misura.
Una lirica breve e graziosissima posta a congedo del libro primo delle Odi esprime il cuore di questa saggezza di Orazio; recita: “Non amo, ragazzo, il lusso dei Persiani, non mi piacciono corone intrecciate di tiglio: smetti di cercare in quale luogo indugi la rosa tardiva. Mi basta il mirto. Il mirto va bene a te che mesci e a me che bevo sotto una stretta pergola”.
La serenità è semplice e prossima: è questo il senso del modus, del limite che l’uomo deve sapersi imporre per godere davvero la vita. “Vivitur parvo bene”, “si vive bene con poco”, dice Orazio, se ci si rifiuta di “saettare” desideri nella lontananza del tempo e dello spazio: “Quid brevi fortes iaculamur aevo / multa? Quid terras alio calientis sole / mutamus?”, “Siamo forti e caduchi, perché saettiamo lontano tante mire? Perché cerchiamo terre scaldate da un altro sole?”.
Bersagliati come siamo da desideri che il più spesso scopriamo vani, distolti dalla semplice essenza della serenità, dovremmo far tesoro della lezione di sobrietà impartitaci da Orazio. ☺
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