blocco irrisolvibile di Dario Carlone | La Fonte TV
Tilt: la si è sentita pronunciare spesso, in queste prime settimane appena trascorse del mese di febbraio, durante le quali il gelo siberiano ha “assediato”- come un “vero” generale inverno – la nostra nazione! Mutuato dall’inglese, il vocabolo tilt – che in italiano compare più spesso nella locuzione “in tilt”, preceduta dai verbi “andare” o “essere”- appartiene al campo semantico dei giochi, in particolare del gioco conosciuto in Italia come flipper, il biliardino elettrico, immancabile in ogni bar che si rispetti, oltre che ospitato nelle sue versioni più sofisticate nelle sale giochi che ormai spopolano nel nostro paese. Con tilt, com’è noto, non si indica il successo nel gioco bensì la perdita sia dei punti accumulati sia delle palline che servono per completare la partita: il flipper si blocca – tilt!!!
A ben guardare, uscendo dall’area semantica citata, l’espressione anglofona traduce “inclinazione, deviazione” ma anche “disputa, contesa” oppure “colpo, attacco”. Applicata al flipper essa è infatti collegata all’abitudine diffusa, ma scorretta, di inclinare il piano di gioco per evitare che la pallina scivoli via: risultato di tale pratica è il blocco del sistema con un colpo repentino, uno scatto che, a volte, è accompagnato dal suono tilt! Nell’uso italiano, come si può desumere, si è operata una inversione tra la causa della conclusione del gioco (inclinazione del flipper) e l’effetto (interruzione della partita) ed è quest’ultimo il significato, anche figurato, che il vocabolo ha assunto nel nostro linguaggio comune: “blocco improvviso difficilmente risolvibile”.
L’espressione linguistica si trasferisce, quindi, ad ambiti diversi: diviene sinonimo di confusione, sia pratica che psicologica, con conseguente incapacità nell’af- frontare e risolvere un problema; sta ad indicare un blocco inaspettato, all’interno di un ingranaggio, che si ripercuote su tutto ciò che è ad esso collegato. E gli esempi non mancano, se solo si guarda a quanto accaduto qualche settimana fa…
Allontanandoci dalla stretta attualità meteorologica, la metafora del tilt – andare o essere in tilt – suggerisce una riflessione più ampia. Il linguaggio che noi adoperiamo, quello con cui quotidianamente comunichiamo gli uni con gli altri, tende sempre più a ridursi, a trasformarsi in brevi e secchi elementi, a prendere le sembianze di un codice elementare, fatto di cifre e sigle. Un vocabolo come tilt ci esime, con la sua genericità, dal fornire spiegazioni esaustive, dal ricorrere alle necessarie e giuste parole di cui la nostra lingua dispone per descrivere un evento, per riflettere su un fenomeno, per rappresentare una sensazione.
La brevità di un certo tipo di linguaggio sembra corrispondere ad una visione “accorciata” delle cose. Limitarsi a denominare un fatto, tralasciando di delineare, se non tutti, almeno i principali aspetti, traduce la nostra incapacità (o scarsa volontà) di prestare attenzione alla realtà che ci circonda.
Quanto può essere produttivo ricorrere a semplificazioni del linguaggio per riferirsi ad un evento? E cosa può indurre, in chi ascolta, un uso precipitoso, a volte irresponsabile, delle parole? Si pensi alla disinvoltura di ministri “perbene” a cui non dispiacciono termini quali “sfigati” o “monotonia del posto fisso”!
Come sostiene Barbara Spinelli, in un suo recente articolo, siamo di fronte ad una inadeguatezza del vocabolario: stanno venendo a mancare “la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche”. ☺
dario.carlone@tiscali.it
Tilt: la si è sentita pronunciare spesso, in queste prime settimane appena trascorse del mese di febbraio, durante le quali il gelo siberiano ha “assediato”- come un “vero” generale inverno – la nostra nazione! Mutuato dall’inglese, il vocabolo tilt – che in italiano compare più spesso nella locuzione “in tilt”, preceduta dai verbi “andare” o “essere”- appartiene al campo semantico dei giochi, in particolare del gioco conosciuto in Italia come flipper, il biliardino elettrico, immancabile in ogni bar che si rispetti, oltre che ospitato nelle sue versioni più sofisticate nelle sale giochi che ormai spopolano nel nostro paese. Con tilt, com’è noto, non si indica il successo nel gioco bensì la perdita sia dei punti accumulati sia delle palline che servono per completare la partita: il flipper si blocca – tilt!!!
A ben guardare, uscendo dall’area semantica citata, l’espressione anglofona traduce “inclinazione, deviazione” ma anche “disputa, contesa” oppure “colpo, attacco”. Applicata al flipper essa è infatti collegata all’abitudine diffusa, ma scorretta, di inclinare il piano di gioco per evitare che la pallina scivoli via: risultato di tale pratica è il blocco del sistema con un colpo repentino, uno scatto che, a volte, è accompagnato dal suono tilt! Nell’uso italiano, come si può desumere, si è operata una inversione tra la causa della conclusione del gioco (inclinazione del flipper) e l’effetto (interruzione della partita) ed è quest’ultimo il significato, anche figurato, che il vocabolo ha assunto nel nostro linguaggio comune: “blocco improvviso difficilmente risolvibile”.
L’espressione linguistica si trasferisce, quindi, ad ambiti diversi: diviene sinonimo di confusione, sia pratica che psicologica, con conseguente incapacità nell’af- frontare e risolvere un problema; sta ad indicare un blocco inaspettato, all’interno di un ingranaggio, che si ripercuote su tutto ciò che è ad esso collegato. E gli esempi non mancano, se solo si guarda a quanto accaduto qualche settimana fa…
Allontanandoci dalla stretta attualità meteorologica, la metafora del tilt – andare o essere in tilt – suggerisce una riflessione più ampia. Il linguaggio che noi adoperiamo, quello con cui quotidianamente comunichiamo gli uni con gli altri, tende sempre più a ridursi, a trasformarsi in brevi e secchi elementi, a prendere le sembianze di un codice elementare, fatto di cifre e sigle. Un vocabolo come tilt ci esime, con la sua genericità, dal fornire spiegazioni esaustive, dal ricorrere alle necessarie e giuste parole di cui la nostra lingua dispone per descrivere un evento, per riflettere su un fenomeno, per rappresentare una sensazione.
La brevità di un certo tipo di linguaggio sembra corrispondere ad una visione “accorciata” delle cose. Limitarsi a denominare un fatto, tralasciando di delineare, se non tutti, almeno i principali aspetti, traduce la nostra incapacità (o scarsa volontà) di prestare attenzione alla realtà che ci circonda.
Quanto può essere produttivo ricorrere a semplificazioni del linguaggio per riferirsi ad un evento? E cosa può indurre, in chi ascolta, un uso precipitoso, a volte irresponsabile, delle parole? Si pensi alla disinvoltura di ministri “perbene” a cui non dispiacciono termini quali “sfigati” o “monotonia del posto fisso”!
Come sostiene Barbara Spinelli, in un suo recente articolo, siamo di fronte ad una inadeguatezza del vocabolario: stanno venendo a mancare “la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche”. ☺
Tilt: la si è sentita pronunciare spesso, in queste prime settimane appena trascorse del mese di febbraio, durante le quali il gelo siberiano ha “assediato”- come un “vero” generale inverno – la nostra nazione! Mutuato dall’inglese, il vocabolo tilt – che in italiano compare più spesso nella locuzione “in tilt”, preceduta dai verbi “andare” o “essere”- appartiene al campo semantico dei giochi, in particolare del gioco conosciuto in Italia come flipper, il biliardino elettrico, immancabile in ogni bar che si rispetti, oltre che ospitato nelle sue versioni più sofisticate nelle sale giochi che ormai spopolano nel nostro paese. Con tilt, com’è noto, non si indica il successo nel gioco bensì la perdita sia dei punti accumulati sia delle palline che servono per completare la partita: il flipper si blocca – tilt!!!
A ben guardare, uscendo dall’area semantica citata, l’espressione anglofona traduce “inclinazione, deviazione” ma anche “disputa, contesa” oppure “colpo, attacco”. Applicata al flipper essa è infatti collegata all’abitudine diffusa, ma scorretta, di inclinare il piano di gioco per evitare che la pallina scivoli via: risultato di tale pratica è il blocco del sistema con un colpo repentino, uno scatto che, a volte, è accompagnato dal suono tilt! Nell’uso italiano, come si può desumere, si è operata una inversione tra la causa della conclusione del gioco (inclinazione del flipper) e l’effetto (interruzione della partita) ed è quest’ultimo il significato, anche figurato, che il vocabolo ha assunto nel nostro linguaggio comune: “blocco improvviso difficilmente risolvibile”.
L’espressione linguistica si trasferisce, quindi, ad ambiti diversi: diviene sinonimo di confusione, sia pratica che psicologica, con conseguente incapacità nell’af- frontare e risolvere un problema; sta ad indicare un blocco inaspettato, all’interno di un ingranaggio, che si ripercuote su tutto ciò che è ad esso collegato. E gli esempi non mancano, se solo si guarda a quanto accaduto qualche settimana fa…
Allontanandoci dalla stretta attualità meteorologica, la metafora del tilt – andare o essere in tilt – suggerisce una riflessione più ampia. Il linguaggio che noi adoperiamo, quello con cui quotidianamente comunichiamo gli uni con gli altri, tende sempre più a ridursi, a trasformarsi in brevi e secchi elementi, a prendere le sembianze di un codice elementare, fatto di cifre e sigle. Un vocabolo come tilt ci esime, con la sua genericità, dal fornire spiegazioni esaustive, dal ricorrere alle necessarie e giuste parole di cui la nostra lingua dispone per descrivere un evento, per riflettere su un fenomeno, per rappresentare una sensazione.
La brevità di un certo tipo di linguaggio sembra corrispondere ad una visione “accorciata” delle cose. Limitarsi a denominare un fatto, tralasciando di delineare, se non tutti, almeno i principali aspetti, traduce la nostra incapacità (o scarsa volontà) di prestare attenzione alla realtà che ci circonda.
Quanto può essere produttivo ricorrere a semplificazioni del linguaggio per riferirsi ad un evento? E cosa può indurre, in chi ascolta, un uso precipitoso, a volte irresponsabile, delle parole? Si pensi alla disinvoltura di ministri “perbene” a cui non dispiacciono termini quali “sfigati” o “monotonia del posto fisso”!
Come sostiene Barbara Spinelli, in un suo recente articolo, siamo di fronte ad una inadeguatezza del vocabolario: stanno venendo a mancare “la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche”. ☺
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