Gianni Rodari
10 Dicembre 2019
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Gianni Rodari

Il 23 ottobre 1920 nasce ad Omegna, sul lago d’Orta, Gianni Rodari. Piemontese, ma cresciuto in Lombardia, adottato poi da Roma, e con il cuore saldamente piantato in Emilia Romagna (la moglie era modenese), Rodari è stato il più grande scrittore di favole e filastrocche del Novecento italiano. Eppure, malgrado questo, troppo spesso, come ha scritto il maestro Mario Lodi, i suoi versi, le sue storie per l’infanzia, sono finiti come “uccellini in gabbia” in libri e antologie, addomesticati, resi innocui da una melassa di buoni sentimenti.

Ufficialmente aperto l’anno rodariano, che si concluderà il 23 ottobre 2020, speriamo invece si possa restituire al pubblico un Gianni Rodari che sia davvero parte fondamentale della storia della cultura italiana, non solo dell’infanzia ma nella sua interezza: un intellettuale militante che ha attraversato il secolo breve, le sue contraddizioni, le sue speranze e sconfitte, senza perdere mai, fino alla fine (giunta troppo presto il 14 aprile 1980), la lucida convinzione che “il senso dell’utopia, un giorno, verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista, l’udito, l’odorato, ecc. Nell’attesa di quel giorno tocca alle favole mantenerlo vivo, e servirsene per scrutare l’universo fantastico”.

Rodari inizia a scrivere sull’Unità di Milano nel 1947, ed è a sua figlia Susanna che lo scrittore di Omegna dedica la sua prima filastrocca. Da quel momento, per caso, la sua vita cambia per sempre. Un caso diventato un mestiere, nel quale sono precipitate passioni messe da parte negli anni della formazione, come quella per la poesia di Alfonso Gatto e di Eugenio Montale, ma anche il gusto surreale assorbito dai testi di Kafka; la sua vena poetica si espande, si precisa, si perfeziona, prende forma e vita in un mondo che si sgancia via via dal razionale, dal logico, dallo scontato. È un mondo, il suo, dove vigono regole diverse, le regole della fantasia. Ma che è intriso di realismo e di un geniale progetto di trasformazione della realtà. Progetto che sembra utopia e che invece non è affatto impossibile. Basta solo immaginare tutto in modo diverso: la scuola, la famiglia, la democrazia, attraverso la lingua, il cambiamento di prospettiva, persino l’errore. Benedetto errore. “Certi errori possono essere utili strumenti per evocare certe realtà, magari per conoscerle meglio. Si può insegnare al bambino non solo a evitare l’errore, ma anche a capire che l’errore, spesso non sta nelle parole, ma nelle cose; che bisogna correggere i dettati, certo, ma bisogna soprattutto correggere il mondo”.

Profondamente critico nei confronti della scuola così come la incontra nella sua vita (“riformatorio ad ore” la chiama nel 1968) si avvicina al Movimento di cooperazione educativa e immagina con Mario Lodi e tanti altri una nuova figura di insegnante. E una nuova scuola, dove non si deve “stare attenti e ricordare e basta”. Una scuola dove anche la fantasia sia dotata di una sua grammatica, di regole da insegnare, tenendo presente però che ogni bambino è un fatto nuovo e che anche le regole non sono date una volta per tutte: “Ora, per conoscere i bambini c’è un modo soltanto: quello di osservarli, di dare loro ascolto”. Cercando di non credere ai propri ricordi, di non usarli illudendosi, così, di poter capire meglio i piccoli che abbiamo di fronte. Ogni bambino è una vita nuova, diversa, un mondo a sé stante. E i nostri ricordi, dice, “a parte le deformazioni che essi ricevono dal modo di lavorare della memoria, non possono spingerci tanto indietro da garantirci che noi siamo stati proprio il bambino che crediamo. Noi ricordiamo pochi, singolari e isolati episodi della nostra infanzia fin verso i cinque sei anni; ma quel bambino, per arrivare a sei anni, ha vissuto centinaia di giorni, migliaia di ore, milioni di attimi ciascuno con la sua esperienza. E quel bambino non esiste più”. Inoltre, “quell’esperienza noi la portiamo in modo quasi del tutto inconsapevole, la ricostruiamo per sintomi esteriori sulla base dei racconti dei nostri genitori, ecc. Bisogna dunque veder vivere i bambini e credere ai propri occhi e alle proprie orecchie e non alla propria memoria”.

Gianni Rodari muore lunedì 14 aprile 1980. È Tullio De Mauro a scrivere l’articolo a lui dedicato sulla terza pagina de L’Unità: “Ha ragione Marcello Argilli: Gianni Rodari è stato sottovalutato dalla nostra critica. Tuttavia, la sottovalutazione ha tali dimensioni che, a misurarla, per quanto la si dia in anticipo per scontata si resta sorpresi lo stesso”.

Oggi le cose non sono poi tanto cambiate, Rodari continua a rimanere nella stanza dei giocattoli, sugli scaffali dei libri dei bambini, come se poi quei libri i bambini non li leggessero insieme a genitori e insegnanti, non parlassero anche a loro. Speriamo che nell’anno rodariano, rimboccandosi le maniche, anche questo errore sia corretto. “In principio la Terra era tutta sbagliata/ renderla più abitabile fu una bella faticata/ Per passare i fiumi con c’erano ponti,/ non c’erano sentieri per salire sui monti./ Ti volevi sedere? Neanche l’ombra di un panchetto./ Cascavi da sonno? Non esisteva il letto./ Per non pungersi i piedi, né scarpe, né stivali./ Se ci vedevi poco, non trovavi gli occhiali. Per fare una partita, non c’erano palloni;/ mancavan la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni,/ anzi, a guardar bene, mancava anche la pasta./ Non c’era niente di niente: zero più zero e basta./ C’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare,/ e agli errori più grossi si poté rimediare./ Da correggere, però, ne restano ancora tanti:/ rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti!”.☺

 

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