
Ho imparato l’amore
Un’estate cotta dal sole quella appena trascorsa, mentre il fuoco della guerra bruciava di vittime innocenti e lame di rancore tagliavano alla cieca nel sangue caldo della vita e in diabolico trionfo fumanti ruote di gomma impazzavano una, due, tre volte su un corpo già privo di respiro.
Un’estate torrida, da liquefare il tangibile e l’intangibile, da sciogliere l’ esistenza della gente “gettandone il futuro in cima al mucchio di terra sulla pala del becchino”, è pure l’estate del 1984, sfondo climatico ed insieme coprotagonista del romanzo di Tiffany Mc Daniel L’estate che sciolse ogni cosa, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2017 da Atlantide per conto della giovane scrittrice americana di origine parzialmente nativo-americana. Lettura potente e ammaliante che nulla ha di languido, nonostante l’afa che la abita, il romanzo mette a tema le arsure della vita, l’amicizia e l’amore, la sofferenza fisica e spirituale, il pregiudizio e l’intolleranza per la diversità, la colpa e la ricerca di espiazione, il senso di Dio e della sua assenza e lo fa con una scrittura decisa, quasi materica, che dà corpo a figure e voci, ambienti e atmosfere, aprendosi qua e là a squarci lirici struggenti, quasi aliti di parole che paiono provenire da un altrove sovraumano.
Voce narrante e bensì protagonista del romanzo è Fielding Bliss, nella finzione letteraria anziano senza tetto che volontariamente vive ai margini della società e che attraverso una lunga serie di flashback racconta quel che successe a lui stesso, alla sua famiglia, al suo intero paesino, Breathed, in Ohio, durante l’estate del 1984, appunto l’estate che sciolse ogni cosa; a lui, allora tredicenne, i “fatti” di quell’estate restituirono un definitivo senso di colpa e di inadeguatezza alla vita, di modo che, sorta di romanzo di formazione e contrario, L’estate che sciolse ogni cosa è anche racconto dell’approdo ad una età adulta segnata da una totale incapacità di reggere il confronto con l’esistente.
La storia sottesa al racconto di Fielding è singolare quanto avvincente. Nel piccolo paesino di Breathed, tipica provincia americana obbediente ad un canone di valori e di leggi ritenuti immutabili, arriva in una torrida giornata estiva del 1984 il Diavolo in persona, rispondendo all’invito che qualche giorno prima il procuratore del posto, l’integerrimo Autopsy Bliss, padre di Fielding, aveva fatto pubblicare su un giornale locale, così, quasi per celia nei confronti dei suoi concittadini, convinto com’era di saper distinguere il bene dal male; il Diavolo, però, non è orrido, non ha le corna, è solo un ragazzino di colore che veste panni sdruciti, ha bellissimi occhi verdi come foglie dell’Eden, la pelle scura e due lunghe cicatrici che gli corrono simmetriche lungo la schiena; subito Sal (questo il nome con cui il Diavolo vuole essere chiamato) stringe amicizia col coetaneo Fielding e anzi la famiglia Bliss lo accoglie ospitale, naturalmente incredula della sua identità di diavolo e commossa dalla sua fragilità. È un fatto, tuttavia, che non solo l’arrivo di Sal corrisponde ad un vertiginoso aumento delle temperature, una cappa che grava sugli abitanti del paese e rende asfittici pensieri e sentimenti, ma che il suo ingresso a Breathed dà il via ad una serie di episodi inquietanti e dolorosi, che la comunità del paese, in un crescendo di odio e violenza, imputa a quel ragazzino strano e venuto dal nulla, nero, che parla oscuro, ponendo insieme a lui in stato di accusa l’intera famiglia Bliss, rea di averlo accolto e perciò meritevole di essere segnata dallo stigma della colpa, quale che sia. In una concatenazione di eventi impreveduti ed incredibili, l’estate del 1984, la stessa della Hiv e della campagna fobica contro l’omosessualità intesa come perversione patogena e contro Dio, rivela a Fielding il volto segreto della sua comunità e della sua stessa famiglia, il senso contraddittorio delle cose, il male che si attarda nella parvenza del bene e che, per quanto si provi, non si può espungere o purificare.
Intessuto di citazioni dal Paradiso perduto di John Milton, che aprono in epigrafe ciascuno dei capitoli, e pieno di riferimenti più o meno evidenti alla Bibbia fin nell’onomastica, L’ estate che sciolse ogni cosa è un romanzo necessario, che scuote la coscienza del lettore, mettendogli di fronte come in degli specchi deformanti l’ immagine dei propri vizi e segreti indicibili, dei propri pregiudizi, del proprio vano perbenismo, della propria irresistibile sequela del male, che egli vede riflessi nei volti dei tanti attori del romanzo.
Una bellissima canzone di De André, “Il testamento di Tito”, che da sempre sento vicina alle mie corde, ha accompagnato a mo’ di silente colonna sonora la mia lettura di questo libro, quasi emergesse dalla memoria un monito che già sapevo e che tante volte aveva vibrato dentro di me; Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore, nella pietà che non cede al rancore madre ho imparato l’amore: è stato il mio commiato al romanzo e la mia preghiera di riuscire ad essere autenticamente cristiana, nonostante tutto.☺