noia smaniosa
2 Luglio 2012 Share

noia smaniosa

 

C’era e c’è una malattia dell’ animo che Orazio con felice ossimoro definiva strenua inertia, diremmo noi “noia smaniosa”, espressione di scientifica nettezza che addita il sintomo eminente di un male a noi pure noto: la smania che ci spinge a vagare qua e là alla ricerca di non sappiamo bene cosa, nel tentativo di trovare soddisfazione a desideri di cui non sappiamo la mira.

Fallimentare ogni cura che consista in un erratico peregrinare di luogo in luogo (né intendo per luogo il solo spazio fisico, ma l’area in cui poggia e soggiorna il desiderio), perché la radice del male è ben più profonda, tutta nell’animo, che non riconosce il limite insito nella fattura della condizione umana, e insiste e spinge: nella stessa epistola della strenua inertia, Orazio notava bene che “mutano il cielo, non l’animo, coloro che corrono al di là del mare” e in un’epistola a quella successiva apertamente incolpava l’animo “che mai sfugge a se stesso” (in culpa est animus, qui se non effugit numquam).

Tanti sono i passi di Orazio in cui compare il tema della “noia smaniosa”; al di là della notazione autobiografica, Orazio attinge ad una lunga tradizione filosofica, specie epicurea e cinica, che aveva fatto di questa argomento un topos, un motivo ricorrente di trattazione.

Prima di Orazio, del taedium vitae aveva già scritto Lucrezio che, struggente eppure energico, nel terzo libro del De rerum natura accusa gli uomini di vivere non sapendo cosa vogliano e cercando sempre di cambiare sede, come potessero disfarsi di un peso; così, scantonando da altrove ad altrove, evitano se stessi, il loro animo, origine e termine di ogni male.

Dopo Orazio il motivo è accolto e sviluppato da Seneca che per definire tale vizio dell’animo scova un termine dal significato volutamente ambiguo, iactatio, nel contempo “agitazione” e “sperpero”, e in una delle sue epistole a Lucilio afferma: “vai di qua e di là per scuoterti un peso che diventa più gravoso per questa tua agitazione” (vadis huc illuc ut excutias insitus pondus quod ipsa iactationem incommodius fit); “ma questi stessi continui spostamenti ti nuocciono,”- conclude – “perché tu muovi un ammalato”.

Il tema si rincorre nella letteratura latina e in quella italiana: da Sant’Agostino a Petrarca, che racconta di essersi imbattuto durante l’ascesa al monte Ventoso proprio nel passo delle Confessioni di Agostino incentrato sull’inquietudine degli uomini, che se ne vanno ad ammirare le alte cime delle montagne, i flutti smisurati del mare, i corsi lunghissimi dei fiumi, l’immensità dell’oceano e il moto degli astri, e abbandonano se stessi; giù fino a Leopardi, che nel canto indirizzato al conte Carlo Pepoli scrive: Altri, quasi a fuggir volto la trista/ umana sorte in cangiar terre e climi/ l’età spendendo e mari e poggi errando/ tutto l’orbe trascorre…Ahi ahi, s’asside/ su l’alte prue la negra cura, e sotto/ ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno/ felicità, vive tristezza e regna.

Negra cura la chiama Leopardi, quasi un calco della comes atra di Orazio – di nuovo-, che anche così aveva definito l’inquietudine in una delle sue satire, aggiungendo di seguito che ogni vagare è vana terapia, perché lei, la noia ansiosa, “ti opprime e se fuggi ti insegue”.

Siamo malati tutti di strenua inertia, a momenti alterni: ci tormentiamo dapprima, guariamo poi, di colpo la recidiva, in un ciclo ininterrotto e in proporzione delle circostanze della vita.

Nell’età adulta ed oltre, però, dovremmo aver almeno capito che noi uomini si è tali per struttura e dovremmo trovare posa nella consapevolezza che l’esperibile umano è pur sempre circoscritto, mentre l’animo degli uomini è tendenzialmente esorbitante, a vocazione d’infinito, donde la sofferenza; insomma, ci si aspetterebbe che sapessimo opporre al male un rimedio più mirato: al posto di un’esteriorizzazione indefessa, un ritorno al sé e l’attitudine a governare la smania, a godere del poco presente, che per quanto banale, non sarà molto diverso da ogni altro “che” a confronto del famelico nostro animo. Invece.

Mi è venuta in mente la strenua inertia di Orazio qualche giorno fa, quando dopo mesi ho riaperto  la “mia” pagina su Facebook e mi sono immersa in un corri e corri collettivo, senza senno e senza meta. Per carità, nulla da ridire del mezzo informatico, già latore di importanti conquiste. Negli anni ottanta si parlava con toni quasi avveniristici di “democrazia digitale” e una tantum si è avverata l’indicibile profezia: basti pensare al Movimento cinque stelle, alla manifestazione “Se non ora, quando”, e all’estero alla cosiddetta “Primavera araba”, agli Indignados, al movimento Occupy Wall Street. Tutti collettivi che, esorditi dal virtuale, hanno di fatto minimizzato la separazione tra società politica e società civile.

Eppure c’è dell’altro, e di meno nobile: il mezzo, come sempre, di per sé non è dannoso né benefico, produce a misura dell’uso che se ne fa. Ecco, Facebook, e immagino Twitter e trovate mediatiche di simile fatta possono divenire fabbrica e specchio deformante di una frenesia di massa, tutto sommato economica assai più che le quadrighe con cui i romani, a dire di Orazio, si spingevano fuori dalle mura dell’Urbe spinti dall’ansia: vi si esternano emozioni e sentimenti e gusti ed idee personalissimi attraverso pillole di “cultura”, da una frase d’autore, ad un suggerimento d’ascolto, ad una foto; vi si sollecita la partecipazioni all’x evento o si richiede l’adesione alla y manifestazione; su e giù, avanti e indietro, invia che ti rinvio io, infine la laconica domanda  “condividi questo elemento?”, o se si vuol dar l’illusione di un principio di elucubrazione l’invito “scrivi il tuo commento!”.

Nessun metabolismo degli affetti, nessuna condivisione in presenza, un mordi e fuggi implacabile in una lussuosa cornice, di plastica; intanto, nella vita reale, spesso noncuranti della voce commossa di un amico di vecchia data, miopi davanti ad un crepuscolo che avvampa, inetti a godere di una poesia in assolo, infastiditi dall’armonia suprema del silenzio. Purché si presenzi un attimo, e si scappi quindi. ☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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