i brunetti   di Gaetano Jacobucci
1 Dicembre 2013 Share

i brunetti di Gaetano Jacobucci

Nella terra di Molise alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento si registrò un intenso e laborioso progetto culturale, ad opera dei Signori locali che crearono botteghe per un fiorente filone intellettuale. Il secolo d’oro del Barocco napoletano si propagava in modo sistematico in tutto il regno, grazie alla scuola partenopea ricca di pittori, scultori e architetti. Francisco Zurbaràn, grande attore del sontuoso Seicento spagnolo, nato un anno prima del Velasquez e tre prima del Cano. La bellezza dell’arte Spagnola si impone con veemenza con le aeree impostazioni di Jusepe de Ribeira e Bartolomè Esteban Murillo, mostrando all’Europa di quale portata sia la risposta della nuova generazione che si opponeva al manierismo di Filippo II e alle influenze fiamminghe e italiane. Si può ritenere una seconda reconquista, che usa la pittura per insegnare, confermare, dimostrare la bellezza del cattolicesimo imperante attraverso le opere, “di fronte alle quali si può e viene voglia di pregare; cosa di cui molti non si curano” (Josè de Sigueza, teologo-poeta).
La bottega dei Brunetti
 I pittori dell’area partenopea-spagnola si piegano a narrazioni di vite e storie di santi, che si dividono in ricchissimi cicli: misteri del rosario, vite di santi e di martiri, che dalle grandi cattedrali o palazzi principeschi si rinchiudono in conventi o chiese di città periferiche del regno. Ritroviamo pittori di solitudini e di silenzi scanditi nella squadrata simmetria o in contrapposizione del doppio registro, quello terreno e quello celeste. Le figure sono severamente immobili, arcaicamente ritagliate nei contorni, sorprese da uno sguardo che pur si sofferma a decorare i particolari, arricciando drappi e aggiungendo particolari leziosi. Il caravaggismo imperante in tutta l’Europa è un successo della sentita devozione derivante da dettagli minuziosi che confonde le linee in uno spazio infinitamente grande con l’acutezza dell’ infinitamente piccolo.
In questa corrente si immerge Benedetto Brunetti, figlio di Matteo, che nel 1623, per la chiesa di Santa Maria della Libera di Cercemaggiore, aveva firmato un trittico, oggi scomparso, raffigurante l’ Annunziata. Alla fine del Cinquecento la sua famiglia raggiunge Oratino proveniente da S. Pietro Infine, con Benedetto, nonno del nostro, maestro intagliatore. La formazione figurativa spazia e riecheggia la maniera tardomeridionale e confrontandosi con i maggiori artisti del Seicento napoletano, reperibili in tante parti del regno.
Nel 1658 Brunetti firma per la chiesa di S. Onofrio di Casacalenda, il Perdono di Assisi. I personaggi posti su due piani secondo uno schema già realizzato da Federico Barocci, oggi ad Urbino nella Galleria Nazionale delle Marche. La figura di Francesco dallo sguardo rivolto verso l’alto, ripresa dal Barocci, conosciuto dalle incisioni o dall’osservazione diretta, è unita dal Brunetti ad una matura formazione di conoscenza sia di Angelo Solimena, che Francesco Guarino. L’aggiunta dell’ Arcangelo S. Michele sulla destra del dipinto attesta che l’opera fu commissionata da un certo Angelo Filacchione scampato alla peste del 1656 che tante vittime provocò, decimando intere popolazioni del regno di Napoli.
Un paesaggio centrale si squarcia quasi in un ideale punto di fuga. L’arte, la peste e la carestia hanno sempre coabitato. Perché l’una e l’altra appartengono a quella misteriosa terra di mezzo tra uomo e natura in cui il male trova nella bellezza la sua rappresentazione e il suo antidoto.☺
gaetano.jacobucci@virgilio.it

 

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