È utile riflettere ancora su una stagione di fermenti giovanili da contrapporre a quella che viviamo sull’onda del bullismo che inquina le cronache quotidiane? È solo retorica e nostalgia improduttiva che non apre speranze ad un futuro diverso? O quella generazione ha posto interrogativi legittimi da tradurre in sfide di grande attualità?
Non a caso, a stagione elettorale conclusa, rimbalzano sulle bocche di tanto popolo e tra le righe di molta stampa questioni che ci rimandano a quei giorni, per aprire gli orizzonti della società e della politica verso paesaggi meno obnubilati. Si può uscire dai tempi bui di una società schiacciata dall’incontinenza, dall’egoismo, dalla prepotenza, dalle lobby, dalle caste… e chi più ne ha più ne metta.
Proviamo ad usare il metodo della lettura che lascia spazio alla proposta, all’orizzonte alternativo. Quel che più ricordo di quella stagione sessantottina fu la volontà di operare in positivo da parte di una fetta di quella generazione giovanile che rispose con semplicità, ma con determinazione, ad uno slogan ben coniato dal presidente USA Kennedy: “Non chiedetevi tanto quel che può fare l’America per voi, ma quel che voi potete fare per l’America”. Fu lo slogan che assunse il movimento “Nuova Frontiera” nato in Molise e diffusosi in diverse altre regioni d’Italia. Il passaggio successivo consisteva nell’assunzione di responsabilità tradotto nel precetto da essi stessi coniato: “pagare di persona”.
Per tornare all’attualità e parlarci tra persone sensibili e contagiate dal malessere che ci circonda, dovremmo provare a tracciare strade nuove per la politica, per l’impegno civile, per la traduzione in concreto del senso della responsabilità sociale. E porre fine ai piagnistei che negli ultimi tempi svuotano la voglia di agire e scaricano su altri le responsabilità. Sentiamoci concausa del tutto.
Torniamo al sessantotto per riscoprire la volontà di fare di quei ragazzi dei paesini molisani che si fecero carico di disturbare famiglie, vicinato, sindaci, scuola e Chiesa nel proporre azioni alternative alle lamentazioni sulle condizioni del Mezzogiorno, sulla situazione contadina, sull’assisten- zialismo come male endemico delle nostre terre. Per questo fecero campi di raccolta della carta, degli stracci, dei ferri vecchi per la costruzione di una struttura giovanile a Campobasso che divenisse laboratorio di vita associativa, luogo di comunità e di progettazione sociale, come pure luogo per sperimentare nuove forme di impresa giovanile. Non paghi, lavorarono l’estate in campi di lavoro con i contadini di Fontesambuco di Agnone e di Pischiola di Civitanova del Sannio.
I loro amici di Bologna, Roma, Asti, Pescara, Chieti, Lanciano, Vasto… non si tirarono indietro quando si trattò di affrontare situazioni di malessere nei quartieri delle periferie urbane e osarono interloquire con calore e a fronte alta con i politici di turno, per rivendicare diritti, per denunciare situazioni di marginalità, di povertà e di prostituzione diffusa in alcuni contesti nella totale indifferenza di cittadini e amministrazioni locali. Discussero anche, dopo aver lavorato giorno dopo giorno, ma proposero e pagarono. Era una bella fetta di quella generazione che credeva nei valori, li propugnava e li testimoniava anche a caro prezzo.
Noi siamo divenuti gradi analisti, passionari delle chiacchiere ma incapaci di agire, proporre, attivarci per cambiare la realtà. E questo ci tocca come persone e come gruppi che si nascondono dietro sigle del tipo: volontariato, promozione sociale, cooperazione… ma poi quando si tratta di uscire dal guscio ce ne guardiamo bene. Ne va del nostro “star bene”, del piccolo interesse di parte. E poi assegniamo alla politica e ai partiti la disonorevole, ma ben adatta, sigla di “casta”. Abbiamo tutti ben compreso che la politica va riformata, ma ci guardiamo bene dall’agire a partire dal nostro spazio di impegno.
Pensiamoci bene, una delle critiche più ricorrenti che la politica si è procurata da parte di esperti analisti in questi ultimi tempi si può ricondurre a giudizi del genere: “una nomenclatura senza popolo”, “una lobby slegata dal territorio”, “apparati autoreferenziali che si costruiscono ipotesi elettorali in modo del tutto verticistico all’interno degli apparati”… e via di seguito. Il tutto riconducibile al nodo di “un territorio senza rappresentanza”.
Ma nel territorio ci siamo noi cittadini, gruppi, circoli, associazioni che operano in tanti settori che dovrebbero farsi carico di una società in crisi per aiutarla a uscirne fuori, a partire dai più giovani. Non possiamo più trovare giustificazioni ai mali della politica che, occorre ripeterlo, non è un fulmine caduto dal cielo ma un frutto nato e sviluppatosi sul territorio nel quale noi tutti siamo inseriti.
Se anche rileggessimo la Costituzione della Repubblica, a partire dall’art. 1, forse potremmo risvegliarci e assumere la nostra responsabilità visto che così esso recita: “la sovranità appartiene al popolo….”. Ci sollecitano quei giovani ad assumerci le nostre responsabilità di cittadini, di gruppi, di associazioni, di movimenti che operano nel prepolitico per cambiare la stessa politica. E reagiamo anche alla comoda compilazione del neologismo “antipolitica” che gli interessati hanno coniato perché non disturbino le caste.
Nasce in questi giorni l’idea di una “Convenzione costituente non di soli politici che avrebbe il pregio di aprire le finestre del Palazzo alla società civile”. Si giunge a formularne una composizione che riguarda il 50% di rappresentanti della politica e 50% di personalità della società civile. Una Convenzione che si dia tempo fino a due anni per predisporre un progetto sul quale si voti poi in Parlamento. Se ne parla già nelle sedi delle maggiori organizzazioni nazionali di terzo settore.
È tempo di porre fine alle dissertazioni improduttive che ci hanno lasciato in eredità i custodi di una “scienza” della parola che produce spettacolarità e inganno e che non cambia la storia e di scendere in campo come si fece allora sulle piazze di mezzo mondo.☺
le.leone@tiscali.it
È utile riflettere ancora su una stagione di fermenti giovanili da contrapporre a quella che viviamo sull’onda del bullismo che inquina le cronache quotidiane? È solo retorica e nostalgia improduttiva che non apre speranze ad un futuro diverso? O quella generazione ha posto interrogativi legittimi da tradurre in sfide di grande attualità?
Non a caso, a stagione elettorale conclusa, rimbalzano sulle bocche di tanto popolo e tra le righe di molta stampa questioni che ci rimandano a quei giorni, per aprire gli orizzonti della società e della politica verso paesaggi meno obnubilati. Si può uscire dai tempi bui di una società schiacciata dall’incontinenza, dall’egoismo, dalla prepotenza, dalle lobby, dalle caste… e chi più ne ha più ne metta.
Proviamo ad usare il metodo della lettura che lascia spazio alla proposta, all’orizzonte alternativo. Quel che più ricordo di quella stagione sessantottina fu la volontà di operare in positivo da parte di una fetta di quella generazione giovanile che rispose con semplicità, ma con determinazione, ad uno slogan ben coniato dal presidente USA Kennedy: “Non chiedetevi tanto quel che può fare l’America per voi, ma quel che voi potete fare per l’America”. Fu lo slogan che assunse il movimento “Nuova Frontiera” nato in Molise e diffusosi in diverse altre regioni d’Italia. Il passaggio successivo consisteva nell’assunzione di responsabilità tradotto nel precetto da essi stessi coniato: “pagare di persona”.
Per tornare all’attualità e parlarci tra persone sensibili e contagiate dal malessere che ci circonda, dovremmo provare a tracciare strade nuove per la politica, per l’impegno civile, per la traduzione in concreto del senso della responsabilità sociale. E porre fine ai piagnistei che negli ultimi tempi svuotano la voglia di agire e scaricano su altri le responsabilità. Sentiamoci concausa del tutto.
Torniamo al sessantotto per riscoprire la volontà di fare di quei ragazzi dei paesini molisani che si fecero carico di disturbare famiglie, vicinato, sindaci, scuola e Chiesa nel proporre azioni alternative alle lamentazioni sulle condizioni del Mezzogiorno, sulla situazione contadina, sull’assisten- zialismo come male endemico delle nostre terre. Per questo fecero campi di raccolta della carta, degli stracci, dei ferri vecchi per la costruzione di una struttura giovanile a Campobasso che divenisse laboratorio di vita associativa, luogo di comunità e di progettazione sociale, come pure luogo per sperimentare nuove forme di impresa giovanile. Non paghi, lavorarono l’estate in campi di lavoro con i contadini di Fontesambuco di Agnone e di Pischiola di Civitanova del Sannio.
I loro amici di Bologna, Roma, Asti, Pescara, Chieti, Lanciano, Vasto… non si tirarono indietro quando si trattò di affrontare situazioni di malessere nei quartieri delle periferie urbane e osarono interloquire con calore e a fronte alta con i politici di turno, per rivendicare diritti, per denunciare situazioni di marginalità, di povertà e di prostituzione diffusa in alcuni contesti nella totale indifferenza di cittadini e amministrazioni locali. Discussero anche, dopo aver lavorato giorno dopo giorno, ma proposero e pagarono. Era una bella fetta di quella generazione che credeva nei valori, li propugnava e li testimoniava anche a caro prezzo.
Noi siamo divenuti gradi analisti, passionari delle chiacchiere ma incapaci di agire, proporre, attivarci per cambiare la realtà. E questo ci tocca come persone e come gruppi che si nascondono dietro sigle del tipo: volontariato, promozione sociale, cooperazione… ma poi quando si tratta di uscire dal guscio ce ne guardiamo bene. Ne va del nostro “star bene”, del piccolo interesse di parte. E poi assegniamo alla politica e ai partiti la disonorevole, ma ben adatta, sigla di “casta”. Abbiamo tutti ben compreso che la politica va riformata, ma ci guardiamo bene dall’agire a partire dal nostro spazio di impegno.
Pensiamoci bene, una delle critiche più ricorrenti che la politica si è procurata da parte di esperti analisti in questi ultimi tempi si può ricondurre a giudizi del genere: “una nomenclatura senza popolo”, “una lobby slegata dal territorio”, “apparati autoreferenziali che si costruiscono ipotesi elettorali in modo del tutto verticistico all’interno degli apparati”… e via di seguito. Il tutto riconducibile al nodo di “un territorio senza rappresentanza”.
Ma nel territorio ci siamo noi cittadini, gruppi, circoli, associazioni che operano in tanti settori che dovrebbero farsi carico di una società in crisi per aiutarla a uscirne fuori, a partire dai più giovani. Non possiamo più trovare giustificazioni ai mali della politica che, occorre ripeterlo, non è un fulmine caduto dal cielo ma un frutto nato e sviluppatosi sul territorio nel quale noi tutti siamo inseriti.
Se anche rileggessimo la Costituzione della Repubblica, a partire dall’art. 1, forse potremmo risvegliarci e assumere la nostra responsabilità visto che così esso recita: “la sovranità appartiene al popolo….”. Ci sollecitano quei giovani ad assumerci le nostre responsabilità di cittadini, di gruppi, di associazioni, di movimenti che operano nel prepolitico per cambiare la stessa politica. E reagiamo anche alla comoda compilazione del neologismo “antipolitica” che gli interessati hanno coniato perché non disturbino le caste.
Nasce in questi giorni l’idea di una “Convenzione costituente non di soli politici che avrebbe il pregio di aprire le finestre del Palazzo alla società civile”. Si giunge a formularne una composizione che riguarda il 50% di rappresentanti della politica e 50% di personalità della società civile. Una Convenzione che si dia tempo fino a due anni per predisporre un progetto sul quale si voti poi in Parlamento. Se ne parla già nelle sedi delle maggiori organizzazioni nazionali di terzo settore.
È tempo di porre fine alle dissertazioni improduttive che ci hanno lasciato in eredità i custodi di una “scienza” della parola che produce spettacolarità e inganno e che non cambia la storia e di scendere in campo come si fece allora sulle piazze di mezzo mondo.☺
È utile riflettere ancora su una stagione di fermenti giovanili da contrapporre a quella che viviamo sull’onda del bullismo che inquina le cronache quotidiane? È solo retorica e nostalgia improduttiva che non apre speranze ad un futuro diverso? O quella generazione ha posto interrogativi legittimi da tradurre in sfide di grande attualità?
Non a caso, a stagione elettorale conclusa, rimbalzano sulle bocche di tanto popolo e tra le righe di molta stampa questioni che ci rimandano a quei giorni, per aprire gli orizzonti della società e della politica verso paesaggi meno obnubilati. Si può uscire dai tempi bui di una società schiacciata dall’incontinenza, dall’egoismo, dalla prepotenza, dalle lobby, dalle caste… e chi più ne ha più ne metta.
Proviamo ad usare il metodo della lettura che lascia spazio alla proposta, all’orizzonte alternativo. Quel che più ricordo di quella stagione sessantottina fu la volontà di operare in positivo da parte di una fetta di quella generazione giovanile che rispose con semplicità, ma con determinazione, ad uno slogan ben coniato dal presidente USA Kennedy: “Non chiedetevi tanto quel che può fare l’America per voi, ma quel che voi potete fare per l’America”. Fu lo slogan che assunse il movimento “Nuova Frontiera” nato in Molise e diffusosi in diverse altre regioni d’Italia. Il passaggio successivo consisteva nell’assunzione di responsabilità tradotto nel precetto da essi stessi coniato: “pagare di persona”.
Per tornare all’attualità e parlarci tra persone sensibili e contagiate dal malessere che ci circonda, dovremmo provare a tracciare strade nuove per la politica, per l’impegno civile, per la traduzione in concreto del senso della responsabilità sociale. E porre fine ai piagnistei che negli ultimi tempi svuotano la voglia di agire e scaricano su altri le responsabilità. Sentiamoci concausa del tutto.
Torniamo al sessantotto per riscoprire la volontà di fare di quei ragazzi dei paesini molisani che si fecero carico di disturbare famiglie, vicinato, sindaci, scuola e Chiesa nel proporre azioni alternative alle lamentazioni sulle condizioni del Mezzogiorno, sulla situazione contadina, sull’assisten- zialismo come male endemico delle nostre terre. Per questo fecero campi di raccolta della carta, degli stracci, dei ferri vecchi per la costruzione di una struttura giovanile a Campobasso che divenisse laboratorio di vita associativa, luogo di comunità e di progettazione sociale, come pure luogo per sperimentare nuove forme di impresa giovanile. Non paghi, lavorarono l’estate in campi di lavoro con i contadini di Fontesambuco di Agnone e di Pischiola di Civitanova del Sannio.
I loro amici di Bologna, Roma, Asti, Pescara, Chieti, Lanciano, Vasto… non si tirarono indietro quando si trattò di affrontare situazioni di malessere nei quartieri delle periferie urbane e osarono interloquire con calore e a fronte alta con i politici di turno, per rivendicare diritti, per denunciare situazioni di marginalità, di povertà e di prostituzione diffusa in alcuni contesti nella totale indifferenza di cittadini e amministrazioni locali. Discussero anche, dopo aver lavorato giorno dopo giorno, ma proposero e pagarono. Era una bella fetta di quella generazione che credeva nei valori, li propugnava e li testimoniava anche a caro prezzo.
Noi siamo divenuti gradi analisti, passionari delle chiacchiere ma incapaci di agire, proporre, attivarci per cambiare la realtà. E questo ci tocca come persone e come gruppi che si nascondono dietro sigle del tipo: volontariato, promozione sociale, cooperazione… ma poi quando si tratta di uscire dal guscio ce ne guardiamo bene. Ne va del nostro “star bene”, del piccolo interesse di parte. E poi assegniamo alla politica e ai partiti la disonorevole, ma ben adatta, sigla di “casta”. Abbiamo tutti ben compreso che la politica va riformata, ma ci guardiamo bene dall’agire a partire dal nostro spazio di impegno.
Pensiamoci bene, una delle critiche più ricorrenti che la politica si è procurata da parte di esperti analisti in questi ultimi tempi si può ricondurre a giudizi del genere: “una nomenclatura senza popolo”, “una lobby slegata dal territorio”, “apparati autoreferenziali che si costruiscono ipotesi elettorali in modo del tutto verticistico all’interno degli apparati”… e via di seguito. Il tutto riconducibile al nodo di “un territorio senza rappresentanza”.
Ma nel territorio ci siamo noi cittadini, gruppi, circoli, associazioni che operano in tanti settori che dovrebbero farsi carico di una società in crisi per aiutarla a uscirne fuori, a partire dai più giovani. Non possiamo più trovare giustificazioni ai mali della politica che, occorre ripeterlo, non è un fulmine caduto dal cielo ma un frutto nato e sviluppatosi sul territorio nel quale noi tutti siamo inseriti.
Se anche rileggessimo la Costituzione della Repubblica, a partire dall’art. 1, forse potremmo risvegliarci e assumere la nostra responsabilità visto che così esso recita: “la sovranità appartiene al popolo….”. Ci sollecitano quei giovani ad assumerci le nostre responsabilità di cittadini, di gruppi, di associazioni, di movimenti che operano nel prepolitico per cambiare la stessa politica. E reagiamo anche alla comoda compilazione del neologismo “antipolitica” che gli interessati hanno coniato perché non disturbino le caste.
Nasce in questi giorni l’idea di una “Convenzione costituente non di soli politici che avrebbe il pregio di aprire le finestre del Palazzo alla società civile”. Si giunge a formularne una composizione che riguarda il 50% di rappresentanti della politica e 50% di personalità della società civile. Una Convenzione che si dia tempo fino a due anni per predisporre un progetto sul quale si voti poi in Parlamento. Se ne parla già nelle sedi delle maggiori organizzazioni nazionali di terzo settore.
È tempo di porre fine alle dissertazioni improduttive che ci hanno lasciato in eredità i custodi di una “scienza” della parola che produce spettacolarità e inganno e che non cambia la storia e di scendere in campo come si fece allora sulle piazze di mezzo mondo.☺
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