Il coraggio della  coerenza
15 Gennaio 2019
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Il coraggio della coerenza

La tradizione ci consegna, accanto alla Prima, una Seconda Lettera di Clemente, molto più breve e scritta qualche tempo dopo, ma che ci è conservata anch’essa, in modo non integro, attraverso il Codice Alessandrino, come se fosse un testo canonico. In realtà si tratta di una delle più antiche omelie, attribuita a Clemente e scritta verso la metà del II secolo; ciò è dimostrato anche dalle citazioni di parole di Gesù appartenenti alla tradizione che in seguito verrà classificata apocrifa, messa sullo stesso piano dei vangeli accolti in seguito come canonici e dell’Antico Testamento. Siamo quindi ancora ai primordi del cristianesimo, quando ancora non emergevano in modo netto le distinzioni tra gruppi “ortodossi” ed “eretici”. Questo testo, tuttavia, non ha un sapore eretico ma afferma già i contenuti della fede poi diventata ortodossa, soprattutto nel sottolineare l’incarnazione di Dio in Gesù: “E qualcuno di voi non dica che questa carne non sarà giudicata e non risorgerà. Sappiate: in che cosa siete stati salvati, in che cosa avete riavuto la luce, se non in questa carne? Dunque noi dobbiamo custodire la carne come tempio di Dio. Come foste chiamati nella carne, così vi giungerete anche nella carne. Se Cristo, il Signore, colui che ci ha salvati, essendo prima spirito, si è incarnato e ci ha chiamato, similmente anche noi riceveremo il premio in questa carne” (9, 1-6).

L’autore fonda tutta la sua esortazione sulla centralità di Cristo per la fede, da cui deriva la necessità di non vivere più il rapporto con Dio basato sui riti, ma sulla concretezza delle scelte di vita: “Egli ha avuto una così grande misericordia verso di noi, innanzitutto, perché noi, i viventi, non facciamo sacrifici e non adoriamo divinità morte, ma conosciamo grazie a lui il padre della verità … come lo riconosceremo? Se metteremo in pratica i suoi insegnamenti” (3,1.4). Lo scopo di questa omelia è esortare i credenti a non scoraggiarsi per i propri peccati e le proprie incoerenze, ma ad impegnarsi, finché si è in questa vita, a migliorare se stessi; lo stesso autore si riconosce infatti debole ma in cammino: “Anche io che sono pieno di peccati e non sono ancora sfuggito alla tentazione, mi sforzo di seguire la giustizia, per essere forte ed essere vicino ad essa, temendo il giudizio futuro” (18,2). Nessun senso di perfezionismo o puritanesimo, ma la consapevolezza, pienamente umana, della propria debolezza che porta a vedere con amorevole indulgenza anche gli altri che non vengono condannati ma incoraggiati a fare del proprio meglio.

Molto bella è l’immagine che usa per parlare della nostra vita presente: quella di un vaso che viene plasmato e che può essere riplasmato ancora finché non è posto nel forno (immagine eloquente della sepoltura e quindi della morte): “Finché siamo sulla terra pentiamoci. Infatti, noi siamo come l’argilla nella mano dell’artigiano; il vasaio lavora in questo modo, se fa un vaso e nelle sue mani si rovina o si rompe, lo plasma di nuovo, se invece lo ha già posto nella fornace non può farci più nulla. Così noi, finché siamo in questo mondo, pentiamoci con tutto il cuore dei peccati che abbiamo commesso nella carne, affinché siamo salvati dal Signore, finché abbiamo il tempo di pentirci” (8,1-2). L’autore, inoltre, raccomanda di vivere una testimonianza non fatta solo di belle parole, ma di coerenza con quello che si annuncia: “I pagani sono pieni di ammirazione quando ascoltano dalla nostra bocca le parole di Dio perché buone e ammirevoli; ma poi, accorgendosi che le nostre opere non sono coerenti con le parole che diciamo, allora si volgono alla bestemmia, dicendo che sono favole e inganno. Quando ascoltano da noi che Dio dice: non c’è merito per voi se amate coloro che vi amano, ma avrete merito se amate i nemici e coloro che vi odiano; quando ascoltano queste cose si meravigliano di così elevata bontà; ma quando vedono che non solo non amiamo color che ci odiano, ma nemmeno quelli che ci amano, ci deridono e bestemmiano il nome del Signore” (13,3-4).

Il messaggio di questa lettera è, come si vede, molto attuale: i cristiani da sempre si sono dovuti confrontare, come oggi, con la necessità di ricentrare la fede sull’unico necessario, cioè Gesù Cristo nella sua carne concreta, cioè nella sua vita narrata dai vangeli; si sono sempre dovuti guardare dal sentirsi arrivati e allo stesso tempo dal vedere chi sbaglia come uno che non ha speranza. E soprattutto hanno dovuto sempre ricordarsi che per essere maestri, come diceva Paolo VI, è necessario essere prima di tutto testimoni. La credibilità del cristianesimo non passa attraverso le belle parole ma attraverso delle esistenze che si lasciano plasmare, come la creta, dal vangelo, nonostante la propria debolezza.☺

 

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