Il diritto inalienabile dei palestinesi
8 Giugno 2024
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Il diritto inalienabile dei palestinesi

Pensiamo davvero che i Palestinesi possano tornare a vivere sui loro territori, se assistiamo tutti i giorni al loro massacro genocidario nella Striscia di Gaza e alle prepotenti, brutali vessazioni cui sono soggetti in Cisgiordania ad opera dei coloni ebrei, predatori impuniti delle proprietà legittime e secolari degli arabi/palestinesi, così come sappiamo essere successo ai nativi americani, sterminati nel truce genocidio perpetrato dagli Stati Uniti? No! Personalmente non penso che possa capitare, come pure suppongo, ma sono quasi certo, che tale convincimento sia presente e sia condiviso anche da una parte consistente dell’opinione pubblica, italiana e non.
Tante sono le ragioni per le quali l’ opinione pubblica del nord del mondo e dell’ Occidente, nonostante sia in gran parte contraria ad ogni conflitto armato, per un verso accetta fatalisticamente quanto di distruttivo succede oggi; per un altro rileva di non essere affatto ascoltata nel suo grido di allarme che vorrebbe scuotere le coscienze sia nella cura della Natura (il territorio, l’ambiente) che viene costantemente distrutta dalle bombe, come pure nella forte contrapposizione all’utilizzo smodato delle sue risorse naturali.
Una delle ragioni per le quali l’opinione pubblica (non solo italiana) sembra incapace di imporre tra palestinesi e israeliani una ipotesi di pacificazione è molto probabilmente il convincimento che, di fronte alla inflessibile risolutezza delle lobby americane (con la complicità dei governi arabi filoccidentali/filoamericani) di essere al fianco del governo fascista e razzista che oggi governa Israele, il cui vero obiettivo è di scacciare dai propri territori gli arabo/palestinesi, ci sia poco da fare. La perentoria fermezza di questi possenti cartelli finanziari si svolge attraverso il sostegno al progetto sionista, che ha come elemento essenziale quello di applicare la narrazione biblica che sostiene che la Palestina sia terra di esclusiva proprietà degli Ebrei, così come Jahvé avrebbe loro suggerito attraverso le parole dei profeti.
Tuttavia, nonostante che le risoluzioni dell’ONU del 1947/48 abbiano definito quali sarebbero dovute essere le aree territoriali di competenza dei due popoli (palestinesi e ebrei); sebbene gli ebrei – meno di un milione, abbiano avuto una porzione di territorio più ampio rispetto a quello assegnato ai palestinesi, che erano un po’ di più di due milioni (e questa divaricazione di interessi puntualmente si verifica anche allo stato attuale, in virtù delle pressioni della lobby ebraico/americana – AIPAC, American Israel Public Affairs -, che è la lobby israeliana a Washington e che possiamo considerare come la costruttrice della politica americana in Medio Oriente da un lato, e, dall’altro, a vantaggio di Israele), fin dagli anni 1947/48 lo Stato di Israele ha sempre perseguito la politica dell’eradicamento dai territori palestinesi degli arabi, come stiamo verificando in questi mesi attraverso lo sterminio dei Palestinesi nella Striscia di Gaza.
Le immagini, che i telegiornali ci propongono tutti i giorni sono davvero orrende, disumane, mortificanti per quanti hanno il senso e la predisposizione al dialogo, al confronto, anche aspro e duro, ma che non sfocia in violenza fisica. Oggi assistiamo ad una gravissima defaillance della capacità di confrontarci con gli altri, soprattutto con quanti non condividono i nostri punti di vista, o la definizione che noi possiamo dare al rapporto fra le classi sociali, specialmente tra quelle abbienti e fortunate e le altre dolorosamente povere ed emarginate. C’è un’aspra contrapposizione fra i due diversi corpi sociali e tale visione antitetica la verifichiamo proprio in questi ultimi decenni, laddove il contrasto e l’antitesi fra gli scenari della storia appaiono enormemente inconciliabili e aggressivamente contrapposti. Come lo riscontriamo? Non solo attraverso la riduzione dell’ethos, di quella, proviamo a definirla, filosofia comportamentale che ci porta al confronto dialettico sereno, duale, cioè rispettoso delle altrui opinioni… e questo atteggiamento non esiste quasi più.
Ma lo appuriamo anche, e soprattutto, attraverso la violenza cruda, scientificamente programmata, come, per esempio, quella che scatena i conflitti armati originati dalla presunzione ideologica del nord del mondo e di quello occidentale, che detengono la ricchezza e che la vogliono smisuratamente accrescere, imponendo in questo modo la legge del più forte, del più ricco grazie alla quale intendono assicurarsi il dominio del mondo intero. Di qui, ci accorgiamo che non esiste quasi più la consapevolezza che così facendo si annienti l’umanità, distruggendo immancabilmente anche il nostro pianeta.
Ma torniamo alla questione palestinese e al conflitto che oggi vede Israele annientare un intero popolo e distruggere la sua storia plurisecolare. Ci conforta la riflessione grazie alla quale constatiamo che, a partire dal 1947/48, è nata, affermandosi anche fuori dai suoi confini, una intellettualità palestinese che ha raccontato e narra ancora oggi la Nakba – 1947 – e la Naksa – 1967 – denunciando a chiare lettere le devastazioni territoriali, le uccisioni arbitrarie e violente, l’ingiustizia immane abbattutesi sul popolo palestinese a causa e per opera della dottrina sionista, che l’attuale governo israelita, fascista, presieduto da Netanyahu e appoggiato dal peggiore raggruppamento partitico e politico degli ultimi decenni, sta attuando a danno dei palestinesi tutti da Gerusalemme est, dalla Cisgiordania, occupata quasi completamente dai coloni israeliani, alla Striscia di Gaza, dove si sta consumando l’annientamento genocidario dei palestinesi.
Il dolore sconfinato per dover abbandonare la propria terra e la penosa disperazione di assistere impotenti alla cancellazione della Storia, che il proprio Paese ha tramandato a generazioni intere, li esprime intensamente la scrittrice Susan Abulhawa nel romanzo Ogni mattina a Jenin (Ediz. Feltrinelli, Mi, ristampa 2023).
La famiglia di Yehya Abulheja non potrà più tornare ad ‘Ain Hod, quasi tutta distrutta dalle bombe e dalle incursioni ladronesche dei soldati del nascente stato ebraico – siamo nel 1948 -.
Ad ‘Ain Hod, secondo i calcoli di Yehya, erano vissute quaranta generazioni di “nascite e funerali”: “(…) Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo. Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. Gli anziani di ’Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo (Jenin!), lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra, e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri” (pp.50-51).☺

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