il fuoco dei giovani di Antonio De Lellis | La Fonte TV
Dopo oltre 20 anni di progetti di prevenzione resto sempre meravigliato dinanzi alla bellezza di un ascolto profondo; al pianto di una ragazza; ad un’accorata richiesta di aiuto; a chi ha perso il senso della vita; a chi subisce maltrattamenti e violenze. Il clima di profonda condivisione che si crea nei gruppi di auto aiuto, con educatori alla pari, negli Istituti superiori mi sorprende sempre per la rara verità che si respira e per la facilità con la quale i giovani si aprono e si confidano non appena si offre loro uno spazio autogestito, libero, non condizionato da imposizioni del mondo adulto. Insieme ai ragazzi della comunità vivo sentimenti di rara vicinanza e di profonda commozione. La libertà precede sempre la verità come sosteneva Fichte. Ed è questa la forza di questi incontri: lo spazio e il tempo vissuti in piena libertà dai quali discende sempre una forma di introspezione, indipendenza, interazione, iniziativa, creatività, allegria e di etica. Emerge da tutto ciò il sentimento più difficile da gestire e più difficile da accettare: la sofferenza. Questa si origina molto spesso da situazioni familiari: rapporti con genitori, con il padre, con i parenti più cari. Situazioni obiettivamente difficili che lasciano cicatrici profonde, ma che sono anche il frutto di una fragilità e vulnerabilità tipica di questa età. Spesso emergono passioni ed ossessioni che hanno un confine labile. La resilienza o la resistenza alle situazioni avverse della vita si confonde con l’incapacità di saper comunicare ad un mondo adulto fluido, distante, distratto o che concentra la propria attenzione su ciò che potrebbe essere importante per il loro futuro, trascurando il presente. Questo presente va vissuto con intensità, ma anche con un minimo di elaborazione per comprenderlo e capirlo. C’è bisogno di sostare e di comunicare la propria sofferenza, perché essa è distruttiva, ma anche vitale, basta incanalarla nelle vene aperte della vita. Abbiamo rubato ai giovani il futuro e vorremmo che stiano bene nel presente, che non vivano “sballandosi” o “facendosi”.
Siamo diventati adulti grazie a qualcuno che ha creduto nel nostro futuro eppure pensiamo di vivere come adulti senza più capacità di futuro. Rubare il futuro è come rubare il presente. Nella dimensione giovanile senza presente non c’è vita ed allora questa è usata, buttata, non rispettata, a volte consacrata ai miti brevi e distruttivi. Il presente sta al futuro come la farina sta al pane. Se ho in mano la farina, questa può diventare pane, basta che io mi impegni, ci creda, lo voglia davvero. Forse non sarà il migliore dei pani, ma sarà il mio pane, il frutto della mia capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o addirittura trasformato proprio come la farina si trasforma in pane. A patto che non perda mai di vista che Itaca non è la meta ma il viaggio e che non possiamo dimenticarci del mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo, che è la dignità umana presente in ciascuno di noi: trascurare se stessi per raggiungere un risultato, per quanto importante sia, è troppo rischioso.
Non ci abituiamo mai alla sofferenza neanche da adulti. Ma che significa essere adulti in un mondo in cui si è omologati, schiacciati, fluidi, magmatici? Viviamo in una foresta di opportunità, ma in un deserto di riferimenti. In una notte pesta anche una piccola luce diventa un riferimento, ma se manca anche questo come potremo resistere? Come possono i giovani imparare a soffrire e resistere? Si può imparare a soffrire? Certo è che la prima via è innanzitutto soffrire e non sfuggire, affrontare e non rinchiudersi nella propria torre d’avorio. La sofferenza ci taglia, ci spezza, ci ferisce, arriva fin dove la carne lascia spazio alle ossa, ti entra fin dentro le midolla, ti pervade interamente e profondamente, ma è ineliminabile. Oggi, però, non vi sono spazi di confronto, di elaborazione, di condivisione e di comunicazione. Crearli è il primo passo per ascoltare la sofferenza perché forse, in fondo, essere adulti altro non è che imparare ad ascoltare le proprie sofferenze e quelle altrui, sostare lì dove non vorresti e sfuggire a ciò che pensi di volere, ma che in realtà ti chiude, ti soffoca, ti priva di futuro.
Ma la sofferenza accende dentro un fuoco che è quello della trasformazione e del cambiamento necessario per vivere. Così il fuoco della gioventù è anche quello che si respira nelle piazze del dissenso, nelle contese per una giustizia sociale ed economica. Chiediamoci fino in fondo a chi fa comodo non alimentare il fuoco della gioventù? Come adulti dovremmo alimentare questo fuoco, trovare legna da ardere, cercare foreste dove i rami secchi di un presente impossibile siano energia da ardere per un futuro possibile. “Ogni persona brilla con luce propria fra tutte le altre. Non ci sono due fuochi uguali, ci sono fuochi grandi, fuochi piccoli e fuochi di ogni colore. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento, e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l’aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si può guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende” (Eduardo Galeano).☺
adelellis@virgilio.it
Dopo oltre 20 anni di progetti di prevenzione resto sempre meravigliato dinanzi alla bellezza di un ascolto profondo; al pianto di una ragazza; ad un’accorata richiesta di aiuto; a chi ha perso il senso della vita; a chi subisce maltrattamenti e violenze. Il clima di profonda condivisione che si crea nei gruppi di auto aiuto, con educatori alla pari, negli Istituti superiori mi sorprende sempre per la rara verità che si respira e per la facilità con la quale i giovani si aprono e si confidano non appena si offre loro uno spazio autogestito, libero, non condizionato da imposizioni del mondo adulto. Insieme ai ragazzi della comunità vivo sentimenti di rara vicinanza e di profonda commozione. La libertà precede sempre la verità come sosteneva Fichte. Ed è questa la forza di questi incontri: lo spazio e il tempo vissuti in piena libertà dai quali discende sempre una forma di introspezione, indipendenza, interazione, iniziativa, creatività, allegria e di etica. Emerge da tutto ciò il sentimento più difficile da gestire e più difficile da accettare: la sofferenza. Questa si origina molto spesso da situazioni familiari: rapporti con genitori, con il padre, con i parenti più cari. Situazioni obiettivamente difficili che lasciano cicatrici profonde, ma che sono anche il frutto di una fragilità e vulnerabilità tipica di questa età. Spesso emergono passioni ed ossessioni che hanno un confine labile. La resilienza o la resistenza alle situazioni avverse della vita si confonde con l’incapacità di saper comunicare ad un mondo adulto fluido, distante, distratto o che concentra la propria attenzione su ciò che potrebbe essere importante per il loro futuro, trascurando il presente. Questo presente va vissuto con intensità, ma anche con un minimo di elaborazione per comprenderlo e capirlo. C’è bisogno di sostare e di comunicare la propria sofferenza, perché essa è distruttiva, ma anche vitale, basta incanalarla nelle vene aperte della vita. Abbiamo rubato ai giovani il futuro e vorremmo che stiano bene nel presente, che non vivano “sballandosi” o “facendosi”.
Siamo diventati adulti grazie a qualcuno che ha creduto nel nostro futuro eppure pensiamo di vivere come adulti senza più capacità di futuro. Rubare il futuro è come rubare il presente. Nella dimensione giovanile senza presente non c’è vita ed allora questa è usata, buttata, non rispettata, a volte consacrata ai miti brevi e distruttivi. Il presente sta al futuro come la farina sta al pane. Se ho in mano la farina, questa può diventare pane, basta che io mi impegni, ci creda, lo voglia davvero. Forse non sarà il migliore dei pani, ma sarà il mio pane, il frutto della mia capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o addirittura trasformato proprio come la farina si trasforma in pane. A patto che non perda mai di vista che Itaca non è la meta ma il viaggio e che non possiamo dimenticarci del mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo, che è la dignità umana presente in ciascuno di noi: trascurare se stessi per raggiungere un risultato, per quanto importante sia, è troppo rischioso.
Non ci abituiamo mai alla sofferenza neanche da adulti. Ma che significa essere adulti in un mondo in cui si è omologati, schiacciati, fluidi, magmatici? Viviamo in una foresta di opportunità, ma in un deserto di riferimenti. In una notte pesta anche una piccola luce diventa un riferimento, ma se manca anche questo come potremo resistere? Come possono i giovani imparare a soffrire e resistere? Si può imparare a soffrire? Certo è che la prima via è innanzitutto soffrire e non sfuggire, affrontare e non rinchiudersi nella propria torre d’avorio. La sofferenza ci taglia, ci spezza, ci ferisce, arriva fin dove la carne lascia spazio alle ossa, ti entra fin dentro le midolla, ti pervade interamente e profondamente, ma è ineliminabile. Oggi, però, non vi sono spazi di confronto, di elaborazione, di condivisione e di comunicazione. Crearli è il primo passo per ascoltare la sofferenza perché forse, in fondo, essere adulti altro non è che imparare ad ascoltare le proprie sofferenze e quelle altrui, sostare lì dove non vorresti e sfuggire a ciò che pensi di volere, ma che in realtà ti chiude, ti soffoca, ti priva di futuro.
Ma la sofferenza accende dentro un fuoco che è quello della trasformazione e del cambiamento necessario per vivere. Così il fuoco della gioventù è anche quello che si respira nelle piazze del dissenso, nelle contese per una giustizia sociale ed economica. Chiediamoci fino in fondo a chi fa comodo non alimentare il fuoco della gioventù? Come adulti dovremmo alimentare questo fuoco, trovare legna da ardere, cercare foreste dove i rami secchi di un presente impossibile siano energia da ardere per un futuro possibile. “Ogni persona brilla con luce propria fra tutte le altre. Non ci sono due fuochi uguali, ci sono fuochi grandi, fuochi piccoli e fuochi di ogni colore. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento, e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l’aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si può guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende” (Eduardo Galeano).☺
Dopo oltre 20 anni di progetti di prevenzione resto sempre meravigliato dinanzi alla bellezza di un ascolto profondo; al pianto di una ragazza; ad un’accorata richiesta di aiuto; a chi ha perso il senso della vita; a chi subisce maltrattamenti e violenze. Il clima di profonda condivisione che si crea nei gruppi di auto aiuto, con educatori alla pari, negli Istituti superiori mi sorprende sempre per la rara verità che si respira e per la facilità con la quale i giovani si aprono e si confidano non appena si offre loro uno spazio autogestito, libero, non condizionato da imposizioni del mondo adulto. Insieme ai ragazzi della comunità vivo sentimenti di rara vicinanza e di profonda commozione. La libertà precede sempre la verità come sosteneva Fichte. Ed è questa la forza di questi incontri: lo spazio e il tempo vissuti in piena libertà dai quali discende sempre una forma di introspezione, indipendenza, interazione, iniziativa, creatività, allegria e di etica. Emerge da tutto ciò il sentimento più difficile da gestire e più difficile da accettare: la sofferenza. Questa si origina molto spesso da situazioni familiari: rapporti con genitori, con il padre, con i parenti più cari. Situazioni obiettivamente difficili che lasciano cicatrici profonde, ma che sono anche il frutto di una fragilità e vulnerabilità tipica di questa età. Spesso emergono passioni ed ossessioni che hanno un confine labile. La resilienza o la resistenza alle situazioni avverse della vita si confonde con l’incapacità di saper comunicare ad un mondo adulto fluido, distante, distratto o che concentra la propria attenzione su ciò che potrebbe essere importante per il loro futuro, trascurando il presente. Questo presente va vissuto con intensità, ma anche con un minimo di elaborazione per comprenderlo e capirlo. C’è bisogno di sostare e di comunicare la propria sofferenza, perché essa è distruttiva, ma anche vitale, basta incanalarla nelle vene aperte della vita. Abbiamo rubato ai giovani il futuro e vorremmo che stiano bene nel presente, che non vivano “sballandosi” o “facendosi”.
Siamo diventati adulti grazie a qualcuno che ha creduto nel nostro futuro eppure pensiamo di vivere come adulti senza più capacità di futuro. Rubare il futuro è come rubare il presente. Nella dimensione giovanile senza presente non c’è vita ed allora questa è usata, buttata, non rispettata, a volte consacrata ai miti brevi e distruttivi. Il presente sta al futuro come la farina sta al pane. Se ho in mano la farina, questa può diventare pane, basta che io mi impegni, ci creda, lo voglia davvero. Forse non sarà il migliore dei pani, ma sarà il mio pane, il frutto della mia capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o addirittura trasformato proprio come la farina si trasforma in pane. A patto che non perda mai di vista che Itaca non è la meta ma il viaggio e che non possiamo dimenticarci del mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo, che è la dignità umana presente in ciascuno di noi: trascurare se stessi per raggiungere un risultato, per quanto importante sia, è troppo rischioso.
Non ci abituiamo mai alla sofferenza neanche da adulti. Ma che significa essere adulti in un mondo in cui si è omologati, schiacciati, fluidi, magmatici? Viviamo in una foresta di opportunità, ma in un deserto di riferimenti. In una notte pesta anche una piccola luce diventa un riferimento, ma se manca anche questo come potremo resistere? Come possono i giovani imparare a soffrire e resistere? Si può imparare a soffrire? Certo è che la prima via è innanzitutto soffrire e non sfuggire, affrontare e non rinchiudersi nella propria torre d’avorio. La sofferenza ci taglia, ci spezza, ci ferisce, arriva fin dove la carne lascia spazio alle ossa, ti entra fin dentro le midolla, ti pervade interamente e profondamente, ma è ineliminabile. Oggi, però, non vi sono spazi di confronto, di elaborazione, di condivisione e di comunicazione. Crearli è il primo passo per ascoltare la sofferenza perché forse, in fondo, essere adulti altro non è che imparare ad ascoltare le proprie sofferenze e quelle altrui, sostare lì dove non vorresti e sfuggire a ciò che pensi di volere, ma che in realtà ti chiude, ti soffoca, ti priva di futuro.
Ma la sofferenza accende dentro un fuoco che è quello della trasformazione e del cambiamento necessario per vivere. Così il fuoco della gioventù è anche quello che si respira nelle piazze del dissenso, nelle contese per una giustizia sociale ed economica. Chiediamoci fino in fondo a chi fa comodo non alimentare il fuoco della gioventù? Come adulti dovremmo alimentare questo fuoco, trovare legna da ardere, cercare foreste dove i rami secchi di un presente impossibile siano energia da ardere per un futuro possibile. “Ogni persona brilla con luce propria fra tutte le altre. Non ci sono due fuochi uguali, ci sono fuochi grandi, fuochi piccoli e fuochi di ogni colore. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento, e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l’aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si può guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende” (Eduardo Galeano).☺
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