il reato di clantestinità
1 Marzo 2010 Share

il reato di clantestinità

 

Qualche giorno fa, sulla spiaggia termolese, appena fuori della città, nel momento di maggiore calura, un uomo, sui 35/4O anni, di sicuro orientale, di nome Javide, così ha detto di chiamarsi, si ferma, saluta educatamente, chiedendo di poter mostrare collane, orecchini, anelli di pregevole fattura, senza alcun impegno di acquisto del materiale che espone con garbo su una tovaglia sopra i granelli di sabbia della spiaggia.

Le persone attorno a lui guardano, fanno commenti sugli oggetti che vengono loro fatti vedere, apprezzano la dignità e l’umiltà del venditore; qualcuna di loro acquista anche; Javide si rialza, ringraziando e  riprendendo la strada sopra il bagnasciuga in direzione di Termoli.

Da lontano ancora saluta con la mano…

I paesi da cui provengono questi lavoratori sono molto diversi tra loro: da un lato, l’India, il Pakistan, la Cina sono nazioni ricche, dotate anche di armamenti nucleari, ma al loro interno c’è una grande frattura sociale, in quanto alla classe ricca, nobile, alla “casta” aristocratica si contrappongono il cittadino medio e il piccolo/grande possidente agricolo che anche con enormi difficoltà stanno contribuendo alla formazione di una classe borghese; questa, se progressista, diviene strumento potenziale dell’elevazio- ne sociale, economica e culturale dell’intera comunità nazionale.

Da un altro lato, ci sono i paesi africani – ricchi di enormi risorse anch’essi – ma molto poveri ad un tempo, dai quali si stanno muovendo centinaia di migliaia di soggetti che premono sul Nord del mondo (anche sull’Italia), il cui sviluppo economico e produttivo seduce la loro grama quotidianità. Soltanto con l’emigrazione – essi suppongono – potranno soddisfare l’esigenza più importante che inseguono, ossia il lavoro, grazie al quale realizzare il proprio sogno e valorizzare in questo modo le loro culture, le loro tradizioni, le loro prospettiche speranze, riuscendo ad  acquistare un livello dignitoso di libertà dal bisogno.

Noi, però, italiani ed europei in generale, che facciamo? Costruiamo i muri che segnano una innaturale ed antistorica divaricazione fra i popoli, le culture, i soggetti.

La legge nr. 733 ha introdotto nel nostro codice un nuovo reato, quello di ingresso e di soggiorno illegale di un non comunitario nel territorio italiano.

Tale reato appare assurdo e senza una radice logica, se è vero che la norma che lo prevede e lo punisce, da un lato esaspera la tendenza all’uso – pieno di simboli significanti – della sanzione penale, e dall’altro tende a considerare “criminale” la semplice condizione personale di emarginazione e di povertà.

D’altra parte il migrante cerca di emanciparsi, appunto spostandosi e fermandosi in un  paese – l’Italia – che per risposta subito intende punirlo, respingendolo nella sua terra d’origine, anzi “spedendolo” nei Cpt della Libia, paese nel quale viene trattenuto sine die, con la complicità interessata del leader libico Gheddafi.

Tale norma si sovrappone a quella che già prevede l’espulsione dal nostro paese e quindi essa risulta un inutile e dannoso doppione.

Dal canto suo la Corte Costituzionale ha già espresso un parere per il quale la condizione di migrante non è  sinonimo di pericolo, ma solo testimonianza di una profonda infelicità esistenziale e di una dolorosa condizione di vita materiale, che non va punita o sanzionata, ma solo risolta con la solidarietà del paese ospitante. Di qui, noi ribadiamo la nostra totale estraneità a tale logica mistificatoria  e razzista, che finisce col fare, dal punto di vista di chi sta bene e non vuole noie, una graduatoria classista: chi sta bene economicamente e socialmente si difende da chi a tale benessere aspira legittimamente: una forma insolita e capovolta di “lotta di classe”!

Tale contrapposizione nei fatti discrimina le persone, indicando come motivo di separatezza la sola condizione economico-sociale di totale bisogno. 

Pertanto viene meno il principio di eguaglianza tra le persone, discriminate a causa della loro condizione di povertà e di disagio.

Questa condizione di povertà come espressione amara di disagio e tale classificazione sociale crudamente selettiva sono il frutto della politica iper-liberista dei paesi occidentali ed in particolare di quelli della comunità europea scientificamente tenaci nel difendere le posizioni di prestigio economico-finanziario estorte ai paesi “poveri”. Naturalmente tale estorsione si verifica puntualmente corredata da ingannevoli promesse di sostegno finanziario, fondamentale per lo sviluppo di questi paesi – pensiamo alle verbosità indecenti del G8 a L’Aquila e a quanto di fumoso ed inconsistente i cosiddetti “grandi” hanno detto dei paesi in via di sviluppo, relativamente all’agricoltura, allo sviluppo industriale o all’utilizzazione delle ricchezze del sottosuolo di queste aree geopolitiche -.

Tale ricostruzione analitica dello status quo attuale sta a dimostrare che oggi non è più la politica – ossia la classe politica – a costruire le basi della società e a difenderne i principi di democrazia partecipata che la debbono sostenere nel tempo, ma i gruppi oligarchici della finanza, le banche, le multinazionali alle quali i governi nazionali sottostanno. Ciò – come tutti ormai sappiamo – è conseguenza della globalizzazione delle merci, della produzione, dell’informazione chiaramente manovrata, controllata e, quindi assolutamente priva di libertà e di autonomia.

La profonda convinzione di buona parte degli esseri pensanti che sia possibile un mondo fondato sui principi di giustizia e di uguaglianza rimane un faro sempre acceso nel disordine del pensiero postmoderno.☺

bar.novelli@micso.net

 

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