Il voto? non basta più
19 Febbraio 2018
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Il voto? non basta più

Nella primavera del 1946 si tennero nei comuni italiani le prime elezioni libere dopo la dittatura fascista. Gli uomini e le donne, che votavano per la prima volta nella storia d’Italia, si sentivano ora cittadini e cittadine di un paese libero, seppure segnato dai disastri della guerra. La partecipazione al voto era il simbolo di un’epoca nuova, di una democrazia ancora in fasce costruita dalla Resistenza e che sarebbe sfociata, di lì a poco tramite altre elezioni, nella scelta repubblicana e nella Costituzione. Fin da allora il voto non fu l’unica pratica della partecipazione democratica, che si concretizzò anche nei grandi processi di liberazione, di mobilitazione e di ricostruzione dell’Italia, prendendo in misura crescente la forma della militanza nei partiti politici.

Il voto come anello forte, ma non esclusivo, della partecipazione popolare e come strumento per la formazione di una classe dirigente permane anche nel periodo del boom economico e fino agli anni ’70, che sono stati l’ultima grande stagione della partecipazione, segnando il culmine del ruolo del partito di massa come strumento in grado di collegare la società alla politica. Poi inizia una fase di stallo e di discesa, fino alla crisi dei partiti, aggravatasi definitivamente negli anni ’90 e tuttora in corso. È aumentata così la distanza tra istituzioni e cittadini, con il proliferare di sentimenti di sfiducia, rassegnazione e indifferenza. La crisi della partecipazione si è intrecciata con quella della rappresentanza, e ciò ha fatto sì che anche il voto venisse considerato sempre più come un fatto rituale o inutile. La perdita di ruolo delle assemblee elettive, con la decadenza del dibattito politico al loro interno, ha sostanzialmente trasformato le competizioni elettorali in contese per la leadership, anziché in consapevole scelta di una classe di governo, in duelli tra contendenti anziché in opzioni chiare di idee e di programmi. Oggi siamo chiaramente di fronte a un degrado della democrazia rappresentativa, accentuato nella particolare situazione italiana, e per questo appare necessario dare impulso a forme di partecipazione in grado di combinare democrazia diretta e democrazia rappresentativa.

La crisi di tutti i partiti storici, più o meno trasformati e trasfigurati, ha determinato un forte indebolimento della rappresentanza politica a tutti i livelli, dal parlamento ai consigli comunali. Al dato quantitativo va aggiunto quello qualitativo, caratterizzato da patologie gravi nelle relazioni tra elettori ed eletti e nell’uso della comunicazione politica, che hanno raggiunto il loro apice nel berlusconismo, proseguito poi in forme più accentuate e concrete nel renzismo.

Dalla sfiducia nella politica, e dal venir meno di modelli ideali alternativi che ha impedito le effettive possibilità di scelta riducendole quasi sempre all’opzione per il meno peggio, è scaturito il rischio del qualunquismo e del populismo (anche se su questo concetto si dovrebbero precisare molte cose). Da qui sono nati anche il leghismo prima e il grillismo poi, forme postdemocratiche di organizzazione politica, mentre nella società sono emerse istanze altre di partecipazione che hanno cercato di dare la parola a un’Italia senza voce: associazioni, forum, comitati, reti, blog…

Dovremmo tornare a domandarci che cos’è la politica e quali forme essa può assumere dopo la crisi forse irreversibile dei partiti. Senza tornare sui celebrati modelli genetici della polis, basterebbe recuperare semplicemente il senso che gli aveva dato Cesare Pavese quando affermava che “la politica è l’arte del possibile, tutta la vita è politica”, o quello ancora più diretto del “prendersi cura di ciò che ci riguarda” di don Lorenzo Milani. Basterebbero queste parole per rendersi conto che l’esperienza diffusa di associazioni e comitati è il contrario del qualunquismo ed è il contrario del leghismo. Essa si basa su sentimenti comuni e sulla coscienza di luogo; sul senso di appartenenza a qualcosa (a una comunità, ad un gruppo sociale, ad un territorio, ad un paesaggio…) e al tempo stesso sull’obiettivo di far diventare una questione di tutti anche le scelte puntuali. Eppure queste forme di impegno vengono sovente bollate come ‘antipolitica’, lasciando trapelare un certo disprezzo per la partecipazione di tanti cittadini. La stessa parola ‘antipolitica’ suona come un termine inventato dal ceto politico per difendere il proprio fortino – la casta come taluni la chiamano – per salvare gli intoccabili meccanismi di ricambio della classe dirigente… un ricambio che, o non c’è, o quando c’è si configura come “le volpi che vanno a dar manforte ai leoni”, cioè la politica dei furbi e dei prepotenti, che si traduce in un senso padronale delle istituzioni e in un uso spregiudicato degli strumenti per la costruzione del consenso; quasi sempre del consenso a decisioni già prese altrove, in sedi non precisate e comunque diverse dallo spazio pubblico, e sovente nella negoziazione diretta con istanze lobbistiche, cioè distanti dall’interesse pubblico.

Ora che ci avviciniamo ad una importante tornata elettorale, nazionale e regionale, è bene richiamare questo percorso storico e questi nodi problematici per rilanciare la partecipazione come valore e come pratica sancita dalla Costituzione (art.3), come antidoto alle tendenze oligarchiche e centralistiche. Partecipazione al voto e partecipazione continua, diffusa, molecolare. L’impegno civico e la partecipazione sono un grande tema da cui dipende il destino delle democrazie contemporanee. Essi servono a tradurre in linguaggio politico l’interesse dei cittadini per le cose che li riguardano ed esprimono il punto di vista della collettività sulle scelte di governo. Sono cioè alla base del sentimento democratico. Così dovrebbe essere. Votare e impegnarsi nella società e sul territorio: non è un’antitesi, sono due facce della stessa medaglia. Quella della democrazia.☺

 

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