Jerusalem terra di ogni padre
Jerusalem il giorno dopo
(eppure prima)
Non so perché piango
viandante di terra lontana, alieno –
piango kefieh e kippah per ogni velo d’oriente
ogni corpo avvolto nei teli di lino
d’altro fieno i miei pascoli, altro shabbat
eppure sento tra i rivoli di sangue salvo
pulsare vivo il fango delle prigioni
i legni appesi tra cumuli di cristallo.
Il muro del pianto assiste ogni lamento
nei residui, tra le pieghe d’innocenza
da mille anni e mille ancora – proni e coloni –
il peso dei blocchi su chi c’era prima
eppure dopo o forse prima del rogo.
Capre e montoni e rahel liberi tra gli ulivi
come al tempo dei pascoli di David e Salomone.
Nessuna dispersione e mammelle per latte condiviso.
(Poi i soliti imbonitori cartomanti).
Navi di fuggitivi al richiamo messianico
patria dei senza patria diventò uragano
altri imposero il menu per la cena.
E vennero Gurion e Moshe Dayan e Arafat.
Non so perché osservo e ascolto la città
da canto a canto, pietra a pietra di Palestina
e chiese e moschee e la pena dei padri-
non so quando e per quanto franeranno
lingue sotto il peso della scrittura imposta.
Il mio orto a ridosso del forno di Jamàl rimane
un mestolo di sabbia libera e acqua salubre.
Piango per ogni stele ogni sasso – da sempre –
ma la sentenza aprirà ancora il torace.
(Il cappellaio chiuse il bazar prima dell’ora
confuse negozi e olio, strappò rafie e tende
consegnò pelli e terrine d’henné e unguenti
alla Babele nuova, senza fare ritorno
nessuno più udì il suono calmo del rabab).
Jerusalem c’è scritto – città della pace?
Eppure un bacio all’ombra del filo spinato
che ristori la bocca
da sete a sete.