La banalità del male
1 Marzo 2014 Share

La banalità del male

Il film Hannah Arendt di Margarethe von Trotta è uscito con acclamazione di critica e di pubblico negli Stati Uniti (uno dei dieci film migliori del 2013 secondo il New York Times) e in tutta Europa salvo che in Italia, dove pare che le sale, tranne che per il giorno della Memoria in alcune grandi città, non ritengano commestibile la storia di un’ignota filosofa.

Nel 1961 Hannah Arendt seguì come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme le 120 sedute del processo Eichmann che era stato responsabile della sezione IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei). Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma, per l’ufficio ricoperto, aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti”. Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate nel libro La banalità del male -Eichmann a Gerusalemme – di Hannah Arendt (Feltrinelli editore).

La prima reazione della Arendt, alla vista di Eichmann, fu certamente atroce. Ma lei sostenne che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. La percezione dell’autrice su Eichmann sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell’organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l’incapacità di pensare. Con la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Egli non era l’unica persona che appariva normale, ma vi era una massa compatta di uomini perfettamente normali i cui atti erano mostruosi. Dietro questa terribile normalità della massa burocratica, che era capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della banalità del male. Questa normalità fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società, si manifestino nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole, ma le applica incondizionatamente. Eichmann ha introdotto il pericolo estremo dell’irriflessività. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro padroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, “commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”. L’analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, come detto sopra, rappresentano il nucleo tematico dell’opera. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di fare il male. La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia, interesse personale, di condanna ideologica di chi lo fa: in questo senso la Arendt si domanda se la dimensione di male è una condizione necessaria di fare il male.

Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne Le Origini di Totalitarismo (1951), il suo primo libro, nel quale sosteneva che l’aumento di totalitarismo era dovuto all’esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, “non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia”.

Questa presupposizione implica l’abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, che significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate è stato chiamato pensare. L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l’uso del pensiero previene il male. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore.

Esplosivo allora e dopo (Von Trotta: “io stessa ho potuto recepirle appieno solo dopo la caduta del Muro di Berlino”) questo pensiero sulla banalità del male, perché insopportabile tanto per la cultura antinazista, rassicurata dall’idea della mostruosità eccezionale di quel male di cui Arendt svelava invece la banale normalità, tanto per la comunità ebraica, rassicurata dalla certezza dell’innocenza assoluta delle vittime.

Oggi, dopo il film di Margarethe von Trotta credo che la banalità del male vada ripreso e letto pensando, per capire dove sta la mostruosità dell’essere umano.☺

Nell’articolo di Loredana Alberti: l’odio e la bellezza (febbraio 2014 pag. 13) è saltata questa citazione che rendeva di difficile comprensione il testo. Ce ne scusiamo con l’autrice e i lettori.

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Peppino Impastato

 

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