Mani vuote
12 Luglio 2023
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Mani vuote

Sfogliando un’antologia degli anni ‘70, mi sono imbattuta qualche tempo fa in una cronaca romanzata dei “fatti di Melissa”. L’insurrezione dei contadini calabresi, che nel 1949 marciarono a migliaia sui latifondi per chiedere la legittima concessione delle terre lasciate incolte dai proprietari, ebbe un tragico epilogo quando i reparti della Celere, ai quali sovraintendeva l’allora ministro dell’Interno Mario Scelba, in località di Melissa, presso la proprietà del possidente Luigi Berlingieri, aprirono il fuoco su quanti avevano occupato il fondo detto di “Fragalà” (peraltro già assegnato dalla legislazione napoleonica al Comune di Melissa): tre persone furono uccise, quindici furono più e meno gravemente ferite né furono risparmiati gli animali, ora ammazzati ora invalidati, a mo’ di ritorsione contro i contadini.
Il resoconto romanzato dei fatti di Melissa, una prosa netta come è talora la realtà, nessun cedimento al barocchismo e alle esagerazioni di maniera, vizi in cui spesso incorre l’uso letterario di lessico o sintagmi di sorta che riecheggino il dialetto e i suoi stilemi linguistici, era a firma Saverio Strati: così, colpevolmente tardi e casualmente, ho conosciuto questo scrittore italiano e ho curiosato ed indagato, perché da subito mi è piaciuto.
Nato nel 1924 a Sant’Agata del Bianco, in provincia di Reggio Calabria, Saverio Strati è stato prima muratore e contadino che scrittore; “calabrese affetto dal demone della narrazione”, come è stato detto di lui, dopo aver compiuto gli studi da autodidatta e conseguito la maturità liceale a Catanzaro, si iscrisse alla facoltà di Lettere di Messina, dove conobbe Giacomo Debenedetti, che, riconoscendone il talento, lo incoraggiò a scrivere; lasciata la Calabria per Firenze e soggiornato per un breve periodo in Svizzera, si trasferì definitivamente a Scandicci e lì trascorse tutta la vita, fino alla morte, avvenuta nel 2014; tanti i suoi scritti, dal racconto La regalia, del 1954, fino a Melina, raccolta di racconti edita postuma nel 2015, passando per Il selvaggio di Santa Venere, romanzo con cui vinse il premio Campiello, in un’opera crescente e vasta che, però, a partire dalla fine degli anni ‘80 cominciò ad essere relegata nell’oblio, come Strati in persona, costretto a chiedere il vitalizio riservato agli artisti per poter trascorrere gli ultimi anni della sua vita.
Non avrei saputo da dove cominciare per conoscer meglio Strati; nel dubbio, letto il titolo Mani vuote, romanzo del 1960, ho deciso che di lì avrei iniziato, per simpatia, perché le mani amo osservarle, mi parlano di vita, che siano nodose o gentili, pienotte o sfilate, contorte nel lavoro o dolorosamente vacanti: e Mani vuote è stato per me, manco a dirlo, una lettura di vita appassionante, per quanto poco accomodante.
Già definito come “romanzo di formazione” Mani vuote è la storia nel contempo epica e tragica di Emilio, un uomo calabrese che in età matura rievoca i tempi dell’infanzia e della prima giovinezza, in realtà da lui mai vissute, scaraventato com’è stato, dopo la morte del padre, nel mondo degli adulti in una Calabria di lavoro durissimo, miseria e sopraffazione, un mondo di contadini e pastori e carbonai privo di ogni tratto idillico, dominato dalla violenza dei rapporti umani e dei pensieri, sempre irretito dalla maglie del pregiudizio, talora minacciato più spesso colluso con una malavita brigantesca il cui unico ideale è quello di sfuggire alla legge; da questa logica e da questa terra difficile e crudele Emilio, infine, riesce ad allontanarsi, diretto verso una terra lontana quanto carica di promesse, l’America. “Mi caricai il sacco in ispalla… presi a camminare… con passo svelto, come se avessi molta fretta di cominciare la mia nuova vita”: è con la rievocazione dell’imminente partenza da parte di Emilio, voce narrante, che si conclude il romanzo, e si tratta di un dettaglio importante. Infatti, pur essendo Mani vuote segnato dalla greve fisicità della terra e degli uomini, dalle nefandezze dei potenti, compresi i poveri arricchiti che diventano “caro- gne”, il romanzo sfugge alla logica binaria del meridionalismo alla Verga, che divide il mondo tra vinti e vincitori. Emilio non è un vinto e non è un vincitore, ma ha maturato attraverso le sue faticose esperienze un’ attitudine alla resistenza, un rafforzamento che si fa sempre più solido, quasi che, scrive Giuseppe Aloe nella Prefazione al romanzo riedito da Rubbettino nel 2021 “quel mondo crudele non fosse che l’apparire di un destino che il protagonista e voce narrante andrà a cercare altrove, ma che gli ha fornito le condizioni e i princìpi di un saper resistere alla violenza della vita”.
Saverio Strati in Mani vuote disegna dunque, a fronte di un destino feroce, l’ipotesi dell’opposizione e della consistenza che tanti uomini, e non solo del nostro Sud, hanno imparato e reso propria; il tutto incorniciato da una lingua di straordinaria chiarezza e linearità, fatta di frasi mai esitanti o involute, quanto al lessico priva di giochi acrobatici, perciò nitida e in grado di simulare la cadenza realistica del parlato senza addentrarsi in stereotipi folcloristici abusati.
Io la direi una letteratura di respiro più ampio che meridionalistico, una letteratura “civile” e interessata a tutti i sud dell’ uomo, geografici e non.
Nel ‘54 Strati aveva pubblicato La regalia, racconto forte, “di uomini e zappe, zappe e pane”, in cui pare essere egli stesso il protagonista, tanto che in una lettera all’ amico Carmelo Filocamo, risalente al marzo dello stesso anno, scrisse: “Carmelo, vent’ anni passati con la zappa nelle mani, la cazzuola e la falce, e le sofferenze non si cancellano così… la nostra Calabria, i nostri contadini, i nostri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione sono dentro di me. E parlo con essi per delle ore, per delle settimane, e me li porto dentro per anni e poi escono, con un parto doloroso….”.
Quando la scrittura porta il marchio dell’umanità.
A presto.☺

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