maternity blues
13 Aprile 2010 Share

maternity blues

 

Sicuramente la notizia che una madre ha tolto la vita al proprio bambino suscita sgomento e profonda ansia collettiva, sia perché la vittima è un bambino sia perché viene ucciso nel luogo in cui dovrebbe essere protetto (la casa), e da chi più di ogni altro dovrebbe prendersi cura di lui. Anche se le origini del fenomeno sono lontane: è un reato «vecchio come il  mondo», sempre esistito e addirittura in qualche periodo accettato o incentivato. Parlare di donne che uccidono implica l’assunzione di una nuova prospettiva che contrasta con l’opinione comune che vede la donna debole e priva di tendenze violente. Ciò diviene ancora più difficile quando la violenza è esercitata da una madre. La cronaca ci pone sempre più spesso di fronte a casi di madri che uccidono, mostrando un fenomeno in costante aumento. Ma come avviene? Come si trasforma una madre in assassina?   

Depressione post partum

Un sentimento di depressione dopo la nascita di un figlio è evento comune, fortemente stressante e spesso taciuto. Implica uno spettro di sintomi, alcuni dei quali possono divenire limitanti, mentre altri possono avere implicazioni più gravi sulla salute mentale.

In psicologia si definiscono disturbi dell’umore, e vanno da un grado più lieve, la baby blues (baby tristezza) a casi più gravi di psicosi, che possono anche spingere all’omicidio.

La depressione post-partum è un «ladro che ruba la maternità», un qualcosa che fa paura. Lo stato d’animo negativo che molte donne sperimentano nei primi giorni dopo il parto è del tutto fisiologico e passeggero. Nel giro di pochi giorni, i sentimenti negativi passano e la donna può godere del suo piccolo. Si parla in questi casi di “baby blues”, uno stato depressivo temporaneo molto comune e senza nessuna conseguenza. Solitamente inizia 3 giorni dopo il parto. Circa il 70%-80% delle neomamme soffre di questo disturbo, che si risolve autonomamente entro un paio di settimane Più seria, e sicuramente da affrontare con l’aiuto di uno specialista, è la “depressione post-partum”, che affligge dall’8 al 15% delle donne. Sopraggiunge alcune settimane dopo il parto e può persistere fino a un anno dopo. La depressione spesso è la molla che spinge la donna ad uccidersi con i propri cari (omicidio-suicidio), la persona afflitta da depressione “altruisticamente” sceglie di portare con sé nella morte il figlio, per evitargli sofferenze future. C’è anche un alto rischio di recidive in chi ha già avuto una depressione post-partum.

Forte ambivalenza verso il figlio

Alcune donne possono essere tormentate da sentimenti intensi che oscillano tra amore e odio verso il figlio; spesso ciò accade quando il bambino non era programmato, o la sua presenza ostacola la realizzazione del genitore. Il piccolo può costituire una fonte di ansia per il genitore che teme e talvolta si convince, che il bambino è malato, malformato o strano. Alla sensazione di avere un nemico nel figlio si alterna la paura di danneggiarlo e fargli del male.

Accidentalmente

Sembra strano poter pensare che accidentalmente si possa uccidere un bambino, ma abbiamo una cospicua casistica a questo proposito. Spesso sono genitori irresponsabili, impulsivi, maltrattanti, con problemi di dipendenza o semplicemente molto giovani, stanchi o inesperti. La cura di un bambino specialmente nei primi anni, assorbe totalmente e può portare a forte esaurimento. Ci sono momenti in cui alcune persone farebbero di tutto per far cessare il pianto o per poter dormire, così può capitare che premano la mano sulla bocca del piccolo troppo a lungo, o tentino punizioni che sfuggono di mano. La morte può subentrare anche a seguito di maltrattamento  senza però che sia presente l’intento omicida.

Altruismo / Eutanasia  

Ci sono situazioni in cui l’amore di un genitore va oltre la vita, casi in cui la sofferenza per un figlio che non potrà mai camminare, avere una famiglia, degli amici può spingere a scelte estreme e dolorose e casi in cui l’accudimento costante diventa una tortura lenta e inesorabile, e dare la morte diviene l’unica soluzione.

vendetta

La sindrome di Medea  è riferita a quelle madri che uccidono il figlio per punire il vero oggetto d’odio e cioè il partner, proprio come fece Medea con Giasone. Tale sindrome, è nata per definire la madre figlicida, e oggi sembra essere più frequente nei padri che, incapaci di sopportare il dolore della separazione, uccidono il figlio per punire chi li ha abbandonati. Disturbi del sonno (non solo legati al pianto notturno del bambino), tristezza, perdita di interesse, isolamento sociale, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione e trascuratezza di sé sono segnali che devono  interessare le persone più vicine alla madre.

Perché il bambino non è desiderato

Frequentemente in questa categoria consideriamo i casi di neonaticidio o negazione della gravidanza, in cui lo shock di avere un bambino è tale da spingere inconsciamente la donna a negare la gravidanza e a cancellarne le conseguenze.

infanticidi

Da qui si osserva che ad uccidere non sono soltanto donne con patologie, problemi economici o sociali; uccidono anche donne giovani, con una vita normale, senza problemi finanziari… e nuovamente viene da domandarsi come sia potuto accadere, perché uccidere un figlio, la propria carne, una parte di sé.

 Interessanti alcuni stralci da un'intervista del 3 giugno 2005 di Marina Corradi al noto psichiatra Vittorino Andreoli, pubblicata su Avvenire: […] L'aumento degli infanticidi – risponde Andreoli – è un dato reale

nel decennio 1993-2003 in Italia sono cresciuti del 41% rispetto al decennio precedente, all'interno del numero complessivo degli omicidi che è invece rimasto sostanzialmente invariato.

    […] Ciò che sta accadendo è che la biologia, ciò che finora abbiamo chiamato "legge di natura", sembra come sopraffatta da una cultura dominante. Una studiosa come Margaret Mahler ha scritto saggi fondamentali sull'attaccamento simbiotico fra la madre e il bambino nei primi tre anni di vita. Qualcosa di viscerale, per cui la madre avverte il figlio come parte di se stessa; qualcosa di legato al codice genetico in funzione della sopravvivenza della specie, per cui una donna "deve" accudire e proteggere il figlio piccolo, allo stesso modo in cui i merli nel nido sull'albero davanti a casa mia badano ai loro piccoli. Ma, ecco, fra i merli questo comportamento è immodificabile. Mentre un aumento del 41% degli infanticidi in 10 anni – in molti casi compiuti lucidamente – mi fa pensare a una cultura che con i suoi modelli riesce a stravolgere quella che chiamavamo legge di natura. Se è così, costituisce il segnale di qualcosa di drammatico. Secondo me, infatti, siamo in un momento storico drammatico. Nell'evidente inarrestabile declino di una civiltà ingolfata nei suoi insostenibili consumi. Obbligati a continuare a comprare automobili e cellulari per non innescare la spirale della disoccupazione a catena, ma – parlo da laico, come i lettori di Avvenire sanno – senza un senso alle nostre giornate. Occorre un nuovo umanesimo – laico, cristiano, o laico e cristiano, insomma occorre ritrovare un senso. Perché quando accade che vengano uccisi dei bambini – i bambini sono di tutti, non dei loro genitori – si produce, assurdamente, un dolore che sarebbe evitabile. Un dolore devastante e becero, insensato; e il segno, insieme, che si è perso senso e voglia di vivere. Che si comincia a perdere l'essenziale. ☺

ninive@aliceposta.it 

 

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