Mettersi a servizio
18 Gennaio 2021
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Mettersi a servizio

“Allora chiamò i dodici e incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi … E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,7.12). Il modo molto sintetico in cui l’evangelista Marco racconta della missione di discepoli non fa altro che riecheggiare la missione di Gesù di cui si narra all’inizio dello stesso vangelo. Di Gesù infatti si dice che, dopo l’arresto di Giovanni, si è messo in moto per annunciare il vangelo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,14-15). È significativo che, oltre a questa frase sintetica, Marco non riporta le parole di Gesù, come fa invece Matteo che si ispira a Marco ma inserisce il grande discorso della Montagna. Dopo la chiamata dei discepoli, invece, Marco racconta una serie di guarigioni effettuate da Gesù, come a dire che la sua predicazione non è fatta di parole, ma di gesti concreti di vicinanza e solidarietà con i malati e i peccatori. È in questo che consiste, secondo Marco, la vicinanza del regno di Dio: non una serie di dottrine per quanto elevante eticamente, ma la solidarietà concreta con chi soffre, soprattutto a causa della malattia.

Il primato del vangelo di Matteo nella spiritualità cristiana ha fatto eclissare la scarna descrizione della vita di Gesù fatta dal secondo evangelista che invece identifica l’evangelizzazione con azioni di guarigione, con la cura di chi è malato. La vicinanza di Dio si manifesta principalmente in questo impegno per il superamento delle malattie, sia fisiche che psicologiche (gli esorcismi). La centralità del ruolo di guaritore nell’attività di Gesù è sottolineata anche dal vangelo più “spirituale”, cioè quello di Giovanni, dove tra i segni/miracoli di Gesù spiccano per numero quelli legati alla guarigione delle malattie e alla lotta contro la morte. L’immagine che di Gesù si sono fatti i primi cristiani insomma coincide più con la figura del dio Asclepio il guaritore, che con la figura di Ercole il supereroe. Anche Paolo di Tarso, nell’elencare i ruoli da svolgere all’interno della comunità, non si ispira affatto al mondo del sacro e della ritualità ma piuttosto al mondo della cura dell’altro: parla infatti del “dono di fare guarigioni” messo sullo stesso piano della profezia e del ministero di apostolo (1 Cor 12,28-30). Per non dire della Lettera di Giacomo, dove si parla della cura del malato attraverso la medicina (unzione con olio) e la preghiera (5,13-15): è da quella lettera che nasce il sacramento dell’unzione degli infermi, molto frainteso non solo perché somministrato quasi solo ai moribondi, ma anche perché è stato trasformato in un rito “magico” anziché essere visto come segno (sacramento) della presa in carico da parte dei credenti di coloro che sono indeboliti dalla malattia; come l’Eucaristia, che è stata fortemente ritualizzata a scapito del rimando alla condivisione dei beni da parte dei credenti con coloro che hanno necessità economiche, come invece è descritto in modo chiaro negli Atti degli Apostoli (2,42-47). La storia cristiana non manca di persone come san Camillo che hanno istituzionalizzato la cura del malato come espressione della propria adesione al vangelo, ma spesso si è confinato questo aspetto ai margini della testimonianza cristiana, una cosa per “addetti ai lavori”, piuttosto che uno dei caratteri specifici dell’essere cristiani.

Nel nostro tempo viviamo l’ esperienza globale della pandemia ma le risposte date in nome della fede spesso non sono ispirate all’interesse primario per i malati e il superamento della malattia, in obbedienza al mandato di Gesù. Così come accade per il mondo del commercio dove si contrappone il bene primario della salute alla necessità di far muovere l’economia, anche nel mondo della pratica religiosa si contrappone l’esigenza di soddisfare i propri bisogni spirituali, come andare in chiesa o riunirsi in comunità, alla necessità di evitare il contagio nell’unico modo possibile in assenza di un vaccino: la distanza. È disarmante assistere ad atteggiamenti sprezzanti del pericolo di contagio in chi ha ruoli nella chiesa, dove spesso, invece di dare l’esempio per insegnare a combattere la malattia, si incita a mettersi a rischio (e ovviamente a mettere a rischio anche altri) perché è più importante vivere la vita sacramentale, e magari viene pure esaltato chi resta infetto nell’esercizio del ministero perché così è più solidale con chi soffre (basta leggere qualche articolo “edificante” di giornali religiosi).

Forse è arrivato il tempo di ritornare alle origini del cristianesimo, quando la preoccupazione primaria di Gesù e dei discepoli non era quella di sfidare la malattia ma di mettersi a servizio per combatterla e per testimoniare che Dio si fa prossimo nella misura in cui chi crede in Lui si fa carico di chi soffre. Molto meglio, insomma, impegnarsi per evitare l’aumento dei contagi che continuare a dire di pregare per chi combatte nelle corsie degli ospedali per curare anche chi, per una messa in più, ha contribuito a diffondere il contagio.☺

 

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