
Pane e rose
Un maggio così freddo e bigio io non lo ricordo. Invece ricordo il mese mariano da piccola, quando si andava in oratorio e, nel mini-giardino allestito dai don, davanti ad un altarino della Madonna si recitava insieme il rosario, un rito breve alla portata dei bambini, e poi via a giocare, tutti a maniche corte e fino a tardi, con le giornate più lunghe; ricordo pure il sospirato maggio del liceo, la scuola prossima a chiudere e la sedia sempre più dura e scomoda, perché fuori era bello e odoroso e star chiusi in casa sui libri una vera fatica; ricordo il maggio dell’università e la luce rosa di Roma e la brezza che alla sera recava conforto dopo una giornata di lezioni e studio; e tanti maggio ancora ricordo, di poi e di sempre, il maggio delle poesie e delle canzoni, delle rose e degli amori, principio promettente di quanto magari non avverrà e poco importa, perché diceva bene Leopardi che l’essenza del piacere è nell’attesa del piacere stesso.
Nell’imminenza delle elezioni io non so da che parte andare. Non vorrei scegliere il meno peggio, perché è la scelta dello scarto e smentisce la consapevolezza e la libertà di una scelta che si voglia dir tale; preferirei rifugiarmi in nessun dove, sicura di non fare male né bene, eppure anche abiurare alla mia dimensione politica, nella quale e della quale vivo, mi pare incoerente e scorretto.
L’emergenza ambientale che questo maggio bizzarro evidenzia è tra le istanze che la politica nazionale, a mio avviso, si è ostinata colpevolmente a ignorare, tolto il prevedibile vaniloquio del caso. Anzi: un notissimo quotidiano nazionale, spalleggiato da una e più arcinote sigle politiche, è giunto a definire Greta, fondatrice del movimento green che tanti giovani ha coinvolto quest’anno, “Gretina”; e sempre su Greta da destra e da manca non è tardata ad arrivare l’ingiuria delle eminenze grigie della politica italiana: tracotante e finta, Greta, pilotata ed etero-diretta, portavoce di interessi occulti, autistica di fatto o per posa.
Ed è qui, io credo, un secondo importante fallimento della campagna politica recente: aver rimandato ancora una volta una seria riflessione e un serio proposito di cambiamento nell’uso della parola, politica e non. A me piacciono le parole, che sono multiformi e duttili come la realtà, e mi piace usarne tante e diverse, non per sciorinare il vocabolario e dar mostra di conoscerlo, ma per tradurre al meglio i miei pensieri, le mie sensazioni, le mie emozioni Non dimentico, però, che le parole hanno un peso, danno sostanza e sono esse stesse sostanza, non volano come palloncini pieni d’aria lasciati al vento e risucchiati dal cielo: che siano scritte o proferite oralmente, le parole incidono chi ascolta o legge, interferiscono con la sua persona, fanno bene e fanno male, nutrono la speranza e alimentano l’astio, celebrano e offendono, ammansiscono e urtano. Del peso delle parole specie chi gestisce o ambisce a gestirlo il potere dovrebbe aver nozione, perché anche con la parola amministra il suo potere. La parola democratica non può che essere rispettosa dei destinatari, intesa a stabilire con loro relazioni paritarie senza rinunciare ad essere autorevole, in quanto fonte e garanzia del benessere collettivo: la parola democratica non deve essere manierosa e melliflua, né oltraggiosa e violenta, solo deve essere nitida e autentica, in quanto capace di restituire il rapporto preciso tra sé medesima e le “cose” che nomina. È il circuito di necessità quasi simbiotica tra cose e parole che un antico politico latino, certo conservatore e altrettanto certo onestissimo uomo di Stato, indicava col detto res tene verba sequentur. Come dire “bada ai fatti, perché le parole verranno da sé”.
Lo stufo di tanti cittadini nei confronti della politica deriva anche dal divario ormai troppo evidente tra fatti e parole della politica, ove la parola è spesso abusata, mal spesa, non ponderata, inutile. Non fa differenza tra destra e sinistra e in cuor mio me ne dispiace, perché il turpiloquio oltranzista di certa destra disturba quanto taluni “ismi”- populismo, ovvero sovranismo – con i quali certa sinistra sprezzante e spocchiosa si ostina ad aggirare la realtà, pur di non confessare che nelle cose ha tradito la fiducia di quell’ente da cui è ormai tanto distante, la gente ed il popolo, appunto.
Non so se voterò e per chi voterò, è sicuro che a me, a molti come a me, è mancata in questo maggio intirizzito e inodore una voce politica fuori del coro, una voce politica pura e vera.
“Bread and roses”- pane e rose – rivendicavano gli operai del tessile americano all’inizio del secolo scorso; e così dovrebbero essere le parole con le quali intraprendere una politica democratica: semplici e mirate, concrete e profumate.☺