Non c’è nulla di più fastidioso che ascoltare vaghe parole di consolazione soprattutto per chi subisce tragedie immani, mentre chi consola rimane in una zona di sicurezza che non lo espone ai capricci del fato. È questa la sensazione che immediatamente emerge nel contemplare l’immane dramma del terremoto che ha colpito l’Abruzzo, soprattutto l’Aquila e dintorni. Di fronte alla visione delle centinaia di morti, delle migliaia di feriti e delle decine di migliaia di senzatetto l’unica parola sensata è, forse, il silenzio. Eppure sono alcuni anni che noi stiamo portando avanti un “periodico dei terremotati” e quindi qualche parola, seppure a bassa voce, la dobbiamo spendere. Come è consuetudine, in questa pagina tentiamo di dar voce alla Parola di Dio, pur con tutti i limiti della nostra interpretazione ed è lì che, ancora una volta, dobbiamo trovare la forza per dare e darci coraggio, di fronte a spettacoli che amplificano ciò che abbiamo vissuto e che anche allora ci hanno fatto assistere a sproloqui retorici che hanno solo coperto furberie, sprechi ed egoismi omicidi che, se spesso trovano scappatoie per la giustizia umana, gridano comunque vendetta al cospetto di Dio.
Nel nostro piccolo abbiamo cercato di sbugiardare i tronfi clown delle prese per i fondelli che ancora spudoratamente vengono chiamate vita politica e ogni volta che qualche re o reuccio è stato trovato nudo lo abbiamo gridato ad alta voce, come Giovanni nel deserto, ed è per questo che anche le nostre riflessioni non devono essere tacciate di retorica, ma piuttosto possono essere accolte come solidarietà del pensiero, che pure è necessaria nella notte dei valori che attraversa la nostra povera Italia. Ma tradirei lo spirito di questa pagina se non facessi ancora una volta parlare la Scrittura, nella sua secolare densità che riecheggia la stessa parola creatrice di Dio.
La parola che ci è venuta in mente, confrontandoci nei giorni che hanno seguito il terremoto, è stato ovviamente il racconto della Passione di Cristo la quale, per ironia della sorte, ha fatto da commento al terremoto e che forse con un po’ di coraggio avrebbe potuto essere celebrata liturgicamente ai funerali di stato delle vittime, al posto dell’inflazionata celebrazione eucaristica diventata ormai, per la funesta e rafforzata alleanza tra trono e altare, un rito civile senza profezia, per permettere di ostentare le lacrime di coccodrillo a qualche politicante. Ma accanto al racconto della Passione ci è venuta in mente, per guardare avanti, una piccola frase di Paolo, perduta nella lettera ai Romani: “Saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18). Quest’affermazione è riferita ad Abramo di cui Paolo parla per spiegare che cosa significa la fede che giustifica al di là di ogni merito. La condizione di Abramo è quella di credere alla promessa di Dio in circostanze in cui l’evidenza direbbe il contrario: Dio ha promesso ad Abramo una discendenza, ma Abramo è vecchio, è cioè nell’impossibilità di avere una discendenza, come anche sua moglie Sara. Nonostante l’evidente impossibilità Abramo crede e spera, come dice Paolo “pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento” (4, 21). Il ragionamento che Paolo fa può sembrare una questione di lana caprina, in quanto sembra riguardare un personaggio che, se esistito, appartiene a una storia remota. Ma in realtà è la Scrittura che a Paolo interessa, perché leggendola ha potuto reinterpretare sia la vicenda terrena di Gesù che si è conclusa storicamente con la morte e la sepoltura ma che è sfociata nella vita nuova della risurrezione, sperimentata nella fede, sia soprattutto la sua personale esperienza di uomo che fino a un certo punto della sua vita aveva delle certezze assolute, dei punti di riferimento e che poi invece ha perso tutto. In questo smarrimento ha solidarizzato con la vicenda di Gesù e ha fatto esperienza della risurrezione, in quanto si è sentito completamente catapultato in una dimensione inattesa in cui ha potuto ricostruire la sua vita, non più incentrata su se stesso e la propria salvezza personale a scapito anche degli altri, giudicati in base a quanto fossero o meno fedeli in termini di osservanza religiosa, ma sull’esperienza di un amore ricevuto gratuitamente e che ora deve essere ridonato. Ovviamente non si tratta solo di una conversione intellettuale vissuta al di fuori della storia, ma di un modo di vivere che lo ha portato a fare scelte controcorrente, a porsi in antitesi con certi stili di vita egoistici e mortali, fino a pagare anche di persona, come lui stesso racconta nei diversi spunti autobiografici; ecco perché le sue Lettere, che parlano di una speranza contro l’evidenza, acquistano sapore di credibilità a tal punto da diventare parole efficaci per ogni tempo.
Ed è in quest’ottica che anche noi vogliamo ridire ai nostri fratelli abruzzesi le parole di Paolo, sperando che le possano accogliere come parole credibili, perché vissute sulla nostra pelle, non dimenticando mai la forza di quella Parola eterna che ha saputo infondere speranza e vita nuova lungo tutta la storia cristiana, a patto che, chi vuole sperimentarne l’efficacia, riformuli realmente il proprio modo di vivere, non più ripiegato sul proprio “particulare”, ma aperto all’acco- glienza e al rispetto degli altri. Quando questo non avviene, infatti, anche la Parola più sacra diventa vuota retorica e spesso è solo strumento di consolazione illusoria (vedi le sacre liturgie civili celebrate da pomposi cardinali) per evitare di assumersi e fare assumere le responsabilità di ciò che accade, perché non si ripetano più tragedie come questa.☺
mike.tartaglia@virgilio.it
Non c’è nulla di più fastidioso che ascoltare vaghe parole di consolazione soprattutto per chi subisce tragedie immani, mentre chi consola rimane in una zona di sicurezza che non lo espone ai capricci del fato. È questa la sensazione che immediatamente emerge nel contemplare l’immane dramma del terremoto che ha colpito l’Abruzzo, soprattutto l’Aquila e dintorni. Di fronte alla visione delle centinaia di morti, delle migliaia di feriti e delle decine di migliaia di senzatetto l’unica parola sensata è, forse, il silenzio. Eppure sono alcuni anni che noi stiamo portando avanti un “periodico dei terremotati” e quindi qualche parola, seppure a bassa voce, la dobbiamo spendere. Come è consuetudine, in questa pagina tentiamo di dar voce alla Parola di Dio, pur con tutti i limiti della nostra interpretazione ed è lì che, ancora una volta, dobbiamo trovare la forza per dare e darci coraggio, di fronte a spettacoli che amplificano ciò che abbiamo vissuto e che anche allora ci hanno fatto assistere a sproloqui retorici che hanno solo coperto furberie, sprechi ed egoismi omicidi che, se spesso trovano scappatoie per la giustizia umana, gridano comunque vendetta al cospetto di Dio.
Nel nostro piccolo abbiamo cercato di sbugiardare i tronfi clown delle prese per i fondelli che ancora spudoratamente vengono chiamate vita politica e ogni volta che qualche re o reuccio è stato trovato nudo lo abbiamo gridato ad alta voce, come Giovanni nel deserto, ed è per questo che anche le nostre riflessioni non devono essere tacciate di retorica, ma piuttosto possono essere accolte come solidarietà del pensiero, che pure è necessaria nella notte dei valori che attraversa la nostra povera Italia. Ma tradirei lo spirito di questa pagina se non facessi ancora una volta parlare la Scrittura, nella sua secolare densità che riecheggia la stessa parola creatrice di Dio.
La parola che ci è venuta in mente, confrontandoci nei giorni che hanno seguito il terremoto, è stato ovviamente il racconto della Passione di Cristo la quale, per ironia della sorte, ha fatto da commento al terremoto e che forse con un po’ di coraggio avrebbe potuto essere celebrata liturgicamente ai funerali di stato delle vittime, al posto dell’inflazionata celebrazione eucaristica diventata ormai, per la funesta e rafforzata alleanza tra trono e altare, un rito civile senza profezia, per permettere di ostentare le lacrime di coccodrillo a qualche politicante. Ma accanto al racconto della Passione ci è venuta in mente, per guardare avanti, una piccola frase di Paolo, perduta nella lettera ai Romani: “Saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18). Quest’affermazione è riferita ad Abramo di cui Paolo parla per spiegare che cosa significa la fede che giustifica al di là di ogni merito. La condizione di Abramo è quella di credere alla promessa di Dio in circostanze in cui l’evidenza direbbe il contrario: Dio ha promesso ad Abramo una discendenza, ma Abramo è vecchio, è cioè nell’impossibilità di avere una discendenza, come anche sua moglie Sara. Nonostante l’evidente impossibilità Abramo crede e spera, come dice Paolo “pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento” (4, 21). Il ragionamento che Paolo fa può sembrare una questione di lana caprina, in quanto sembra riguardare un personaggio che, se esistito, appartiene a una storia remota. Ma in realtà è la Scrittura che a Paolo interessa, perché leggendola ha potuto reinterpretare sia la vicenda terrena di Gesù che si è conclusa storicamente con la morte e la sepoltura ma che è sfociata nella vita nuova della risurrezione, sperimentata nella fede, sia soprattutto la sua personale esperienza di uomo che fino a un certo punto della sua vita aveva delle certezze assolute, dei punti di riferimento e che poi invece ha perso tutto. In questo smarrimento ha solidarizzato con la vicenda di Gesù e ha fatto esperienza della risurrezione, in quanto si è sentito completamente catapultato in una dimensione inattesa in cui ha potuto ricostruire la sua vita, non più incentrata su se stesso e la propria salvezza personale a scapito anche degli altri, giudicati in base a quanto fossero o meno fedeli in termini di osservanza religiosa, ma sull’esperienza di un amore ricevuto gratuitamente e che ora deve essere ridonato. Ovviamente non si tratta solo di una conversione intellettuale vissuta al di fuori della storia, ma di un modo di vivere che lo ha portato a fare scelte controcorrente, a porsi in antitesi con certi stili di vita egoistici e mortali, fino a pagare anche di persona, come lui stesso racconta nei diversi spunti autobiografici; ecco perché le sue Lettere, che parlano di una speranza contro l’evidenza, acquistano sapore di credibilità a tal punto da diventare parole efficaci per ogni tempo.
Ed è in quest’ottica che anche noi vogliamo ridire ai nostri fratelli abruzzesi le parole di Paolo, sperando che le possano accogliere come parole credibili, perché vissute sulla nostra pelle, non dimenticando mai la forza di quella Parola eterna che ha saputo infondere speranza e vita nuova lungo tutta la storia cristiana, a patto che, chi vuole sperimentarne l’efficacia, riformuli realmente il proprio modo di vivere, non più ripiegato sul proprio “particulare”, ma aperto all’acco- glienza e al rispetto degli altri. Quando questo non avviene, infatti, anche la Parola più sacra diventa vuota retorica e spesso è solo strumento di consolazione illusoria (vedi le sacre liturgie civili celebrate da pomposi cardinali) per evitare di assumersi e fare assumere le responsabilità di ciò che accade, perché non si ripetano più tragedie come questa.☺
Non c’è nulla di più fastidioso che ascoltare vaghe parole di consolazione soprattutto per chi subisce tragedie immani, mentre chi consola rimane in una zona di sicurezza che non lo espone ai capricci del fato. È questa la sensazione che immediatamente emerge nel contemplare l’immane dramma del terremoto che ha colpito l’Abruzzo, soprattutto l’Aquila e dintorni. Di fronte alla visione delle centinaia di morti, delle migliaia di feriti e delle decine di migliaia di senzatetto l’unica parola sensata è, forse, il silenzio. Eppure sono alcuni anni che noi stiamo portando avanti un “periodico dei terremotati” e quindi qualche parola, seppure a bassa voce, la dobbiamo spendere. Come è consuetudine, in questa pagina tentiamo di dar voce alla Parola di Dio, pur con tutti i limiti della nostra interpretazione ed è lì che, ancora una volta, dobbiamo trovare la forza per dare e darci coraggio, di fronte a spettacoli che amplificano ciò che abbiamo vissuto e che anche allora ci hanno fatto assistere a sproloqui retorici che hanno solo coperto furberie, sprechi ed egoismi omicidi che, se spesso trovano scappatoie per la giustizia umana, gridano comunque vendetta al cospetto di Dio.
Nel nostro piccolo abbiamo cercato di sbugiardare i tronfi clown delle prese per i fondelli che ancora spudoratamente vengono chiamate vita politica e ogni volta che qualche re o reuccio è stato trovato nudo lo abbiamo gridato ad alta voce, come Giovanni nel deserto, ed è per questo che anche le nostre riflessioni non devono essere tacciate di retorica, ma piuttosto possono essere accolte come solidarietà del pensiero, che pure è necessaria nella notte dei valori che attraversa la nostra povera Italia. Ma tradirei lo spirito di questa pagina se non facessi ancora una volta parlare la Scrittura, nella sua secolare densità che riecheggia la stessa parola creatrice di Dio.
La parola che ci è venuta in mente, confrontandoci nei giorni che hanno seguito il terremoto, è stato ovviamente il racconto della Passione di Cristo la quale, per ironia della sorte, ha fatto da commento al terremoto e che forse con un po’ di coraggio avrebbe potuto essere celebrata liturgicamente ai funerali di stato delle vittime, al posto dell’inflazionata celebrazione eucaristica diventata ormai, per la funesta e rafforzata alleanza tra trono e altare, un rito civile senza profezia, per permettere di ostentare le lacrime di coccodrillo a qualche politicante. Ma accanto al racconto della Passione ci è venuta in mente, per guardare avanti, una piccola frase di Paolo, perduta nella lettera ai Romani: “Saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18). Quest’affermazione è riferita ad Abramo di cui Paolo parla per spiegare che cosa significa la fede che giustifica al di là di ogni merito. La condizione di Abramo è quella di credere alla promessa di Dio in circostanze in cui l’evidenza direbbe il contrario: Dio ha promesso ad Abramo una discendenza, ma Abramo è vecchio, è cioè nell’impossibilità di avere una discendenza, come anche sua moglie Sara. Nonostante l’evidente impossibilità Abramo crede e spera, come dice Paolo “pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento” (4, 21). Il ragionamento che Paolo fa può sembrare una questione di lana caprina, in quanto sembra riguardare un personaggio che, se esistito, appartiene a una storia remota. Ma in realtà è la Scrittura che a Paolo interessa, perché leggendola ha potuto reinterpretare sia la vicenda terrena di Gesù che si è conclusa storicamente con la morte e la sepoltura ma che è sfociata nella vita nuova della risurrezione, sperimentata nella fede, sia soprattutto la sua personale esperienza di uomo che fino a un certo punto della sua vita aveva delle certezze assolute, dei punti di riferimento e che poi invece ha perso tutto. In questo smarrimento ha solidarizzato con la vicenda di Gesù e ha fatto esperienza della risurrezione, in quanto si è sentito completamente catapultato in una dimensione inattesa in cui ha potuto ricostruire la sua vita, non più incentrata su se stesso e la propria salvezza personale a scapito anche degli altri, giudicati in base a quanto fossero o meno fedeli in termini di osservanza religiosa, ma sull’esperienza di un amore ricevuto gratuitamente e che ora deve essere ridonato. Ovviamente non si tratta solo di una conversione intellettuale vissuta al di fuori della storia, ma di un modo di vivere che lo ha portato a fare scelte controcorrente, a porsi in antitesi con certi stili di vita egoistici e mortali, fino a pagare anche di persona, come lui stesso racconta nei diversi spunti autobiografici; ecco perché le sue Lettere, che parlano di una speranza contro l’evidenza, acquistano sapore di credibilità a tal punto da diventare parole efficaci per ogni tempo.
Ed è in quest’ottica che anche noi vogliamo ridire ai nostri fratelli abruzzesi le parole di Paolo, sperando che le possano accogliere come parole credibili, perché vissute sulla nostra pelle, non dimenticando mai la forza di quella Parola eterna che ha saputo infondere speranza e vita nuova lungo tutta la storia cristiana, a patto che, chi vuole sperimentarne l’efficacia, riformuli realmente il proprio modo di vivere, non più ripiegato sul proprio “particulare”, ma aperto all’acco- glienza e al rispetto degli altri. Quando questo non avviene, infatti, anche la Parola più sacra diventa vuota retorica e spesso è solo strumento di consolazione illusoria (vedi le sacre liturgie civili celebrate da pomposi cardinali) per evitare di assumersi e fare assumere le responsabilità di ciò che accade, perché non si ripetano più tragedie come questa.☺
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