pellegrino dell’assoluto
19 Aprile 2010 Share

pellegrino dell’assoluto

 

“E’ arrivato il tempo in cui devo vedermela da solo con Dio, disponendomi a lasciare questo esilio, che non ho mai considerato mia patria ed in ogni luogo, dove mi sono dovuto adattare, mi sono sentito sempre un estraneo”. Inizia così il testamento di un uomo che ho amato e ammirato, di un credente che mi ha insegnato a scommettere su Cristo, di un vescovo che si è assunta anche la responsabilità di ordinarmi prete, dicendomi: “Stiamo sempre con la Chiesa e sappiamo anche soffrire dalla Chiesa”.

Pietro Santoro nasce nel 1913 a Roccabascerana, in provincia di Avellino. Ordinato prete nel 1937 si atterrà scrupolosamente a quanto in quel giorno gli dice la mamma: “Ti abbiamo portato al sacerdozio, ma non vogliamo nulla da te, se non di essere un degno prete”. La sua missione è quella di preparare i giovani al sacerdozio nel seminario  di Benevento. Sa essere padre, consigliere, guida, educatore per diverse generazioni di preti  sparsi per il foggiano, il beneventano, l’avellinese e il Molise.

Nel 1967, dopo vari suoi precedenti dinieghi, viene consacrato vescovo. Il suo episcopato si svolge tutto in terra molisana: Trivento, Larino, Termoli, Campobasso, sono le tappe del suo ministero. Pellegrino dell’Assoluto fino all’8 aprile 1998 quando sorella morte gli va incontro a S. Giovanni Rotondo e lo introduce nell’oggi di Dio che ha sapore di eternità.

Nel 1989 lascia l’arcidiocesi di Campobasso in punta di piedi chiedendo che “omaggi e manifestazioni” fossero riservati al successore, e finisce i suoi giorni, in povertà come era vissuto, nell’ospizio dei padri cappuccini, nonostante la concreta possibilità di “un piacevole e confortevole riposo assistito e cullato come una reliquia”, per diventare, come mi scrisse: “più saggio e meno rimbambito”. Sull’esempio di padre Pio, offre il suo aiuto e la sua grande capacità di discernimento a quanti, per liberarsi dalle prigionie interiori, vanno a cercare riconciliazione con Dio, con gli uomini e con se stessi.

Nel suo impegno pastorale alla grancassa prepone l’arpa, alla platealità per richiamare l’attenzione preferisce far vibrare le corde nascoste nel cuore dell’uomo. Con stile dimesso, ma mai sciatto, si propone di rianimare la speranza, facendo sì che i drammi non diventino mai tragedie. Evita ogni megalomania, mettendosi umilmente e silenziosamente a dissodare il terreno nella certezza che altri avrebbero seminato e altri ancora raccolto.

E’ pienamente convinto che “le vere riforme nella Chiesa vengono dal basso” per cui nel suo ministero non scarta l’estemporaneità, non spegne il lucignolo fumigante, non getta il bambino con l’acqua sporca. Riesce a leggere la storia con occhio disincantato e per questo a coglierne le istanze positive. La paura non scavalca mai la speranza.

Nel testamento annota: “A quanti mi conobbero mi sia lecito lasciare un ricordo: siate umili, perché l’umiltà è verità e senza umiltà non c’è vera fede né carità”. Non ha compiuto gesti eclatanti, non ha scritto trattati o dissertazioni, non è andato a braccetto con i potenti della terra, ma ha vissuto in modo straordinariamente grande e sapiente il quotidiano. Non cercò di addestrare cavalli per le corse, ma ci insegnò a tirare la carretta.

“Quando Mosè conduceva i greggi di Ietro, teneva indietro i montoni più adulti, perché i più giovani fossero i primi a brucare l’erba tenera. Lasciava poi gli altri perché mangiassero l’erba meno tenera, ai più forti riserbava l’erba più dura. Il Santo Unico disse: chi conosce il modo giusto di pascolare il gregge sia la guida del mio popolo”. Quello che il Talmud dice di Mosè possiamo dirlo di Pietro Santoro, vescovo della Chiesa di Dio. ☺

 

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